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SLOBO VIVE LA SINISTRA ITALIANA RANTOLA di Fulvio Grimaldi

 E tu onor di pianti Ettore avrai ove fia sacro e lacrimato il sangue per la patria versato e finchè il sole risplenderà sulle sciagure umane (Ugo Foscolo, I Sepolcri)

Nel post precedente sono saltate alcune parti del mio intervento su Slobodan Milosevic, recuperate da una cara compagna serba, Olga Daric, e che qui ripropongo

Venerdì 24 marzo 1999 iniziavano i bombardamenti su Belgrado, l'assalto finale alla Jugoslavia, la distruzione del suo cuore pulsante serbo da parte del revanscismo nazifascista e dell'imperialismo Usa. Quello fu l'ultimo giorno che io trascorsi in RAI, al TG3. La nausea per il chiacchiericcio sull'"intervento umanitario" della nostra corrispondente amerikkkana e slavofoba in Kosovo, Giovanna Botteri, accolto dal plauso del direttore e di tutta la redazione, era diventata insopportabile. Presi una telecamera, andai a Belgrado, girai la Serbia del "dittatore" Milosevic, certo il più democratico dei governanti europei. Ne nacquero i miei documentari "Il popolo invisibile" e "Serbi da morire", unica informazione non "conforme", insieme a una puntata della trasmissione di Santoro dal Ponte Branco. Piovevano le bombe degli "umanitari" su case, scuole, ospedali, treni, ponti, monasteri, mentre in Kosovo, protetti dalla Nato e da Giovanna Botteri, le bande assassine dell'UCK fascista-albanese di Hashim Thaci (fidanzato di Madeleine Albright, oggi primo ministro del Narcostato) conducevano l'unica vera pulizia etnica mai vista in Jugoslavia, dopo le stragi nazifasciste 1940-1945 e fuori dalla Croazia del fascista Pavelic e dei suoi successori moderni benedetti dal papa, da Berlino e da Pannella in mimetica. Oggi la Serbia è in coma, gli altri finti statarelli usciti dall'assalto colonialista USA-UE, con il sostanzioso aiuto sul campo dell'agente Cia e addestratore terrorista Osama bin Laden, contano in Europa e nel mondo meno di un pelo della barba di Tito. Il Kosovo, riconosciuto appena da un terzo degli Stati del mondo, assolve alla funzione assegnatagli dagli occidentali: megabase Usa a controllo dell'Est europeo, del traffico di droga dall'Afghanistan occupato, di commercio di donne, bambini e organi. Complimenti a D'Alema per aver collaborato alla fase propedeutica dell'annichilimento di Iraq, Afghanistan, Pakistan e, via via, dell'intero mondo collocato nel mirino della "guerra infinita".

Ho tra le mie foto più preziose, sopra il televisore, una con Slobodan Milosevic. Siamo a casa sua, la residenza di Stato del presidente della Jugoslavia, ormai “Piccola Jugoslavia”, sulla collina di Dedinje, in vista del Danubio ed è il 27 marzo 2001. Fuori dalla villa, amici e militanti del Partito Socialista contengono una piccola folla che sbraita contro colui che ormai è l’ex-presidente, destituito più che da un voto manomesso fino a bruciarne le schede, dal pogrom di un’organizzazione finto-nonviolenta e paramilitare, “Otpor”, finanziata ed addestrata dalla Cia e dal brigante della speculazione finanziaria e del narcotraffico George Soros. Tre giorni più tardi queste bande e i loro padrini internazionali l’avranno vinta. Milosevic verrà arrestato e, qualche mese dopo, consegnato per 30 milioni di dollari, trenta denari, agli sgherri di un tribunale-farsa istituito all’Aja dal governo Usa con la firma del notaio Kofi Annan ed affidato a fiduciari, rinnegati dell’ordine giudiziario, come le “procuratrici” Louise Harbour e Carla Del Ponte. Lo venderà ai suoi mandanti il capomafia e Primo Ministro Zoran Djindjic, colui che aveva consegnato ai bombardieri della Jugoslavia le mappe con gli obiettivi da colpire: raffinerie, industrie, ponti, ferrovie, ma soprattutto case, scuole, ospedali, gente: 10.000 vittime per 78 giorni di intervento umanitario contro una totalmente inventata “pulizia etnica” in Kosovo. Con sulla torre di controllo, in primissima fila, Massimo D’Alema (Non pago del bagno di sangue jugoslavo, rilancia ancora oggi: “E’ giusto espandere la democrazia anche con la forza”). Guardo quella foto mentre, sotto, lo schermo tv è percorso da immagini falso-vere di un'oscena propaganda umanitaria e percosso dall’eloquio nevroticamente sincopato, di una corifea di tutti gli “interventi umanitari”, Giovanna Botteri del Tg3. Una che ricordiamo stracciarsi le vesti e annunciare macelli, possibilmente di bambini sventrati e di turbe in stracci, che si trattasse della Jugoslavia, o dell’Iraq, con pari dedizione saprofita. Segue un'altra stampella delle ragioni per l’ “intervento umanitario”, Ennio Remondino, che, classico gabbamondo mediatico da tavolino delle tre carte, con supponenza elargisce e mescola “il despota Milosevic”, “il presidente democratico Djindjic”, i cattivi bombardamenti Nato e i cattivissimi nazionalisti serbi. Intanto mi premono sullo stomaco, forse un po’ come quell’ultimo pasto avvelenato rifilato a Milosevic per stroncarne l’esito vittorioso sugli avvoltoi del tribunale-postribolo, la parole tossiche, passate e presenti, di altri eroi del cerchiobottismo, becchini della Jugoslavia e della verità che, con piagnistei equamente distribuiti tra carnefici e vittime, sono stati anche più efficienti nell’apparecchiare la sepoltura di un nobile paese. Il dolore per la morte da assassinio di quest’ uomo, senza retorica vera figura da tragedia greca, si mescola con rabbia, indignazione, ripugnanza e ne viene quasi temperato. Non mi riferisco alla grande stampa della borghesia, dall’Unità a Libero, dall'Espresso alla Stampa, da Ferrara a Mieli. Fetecchie da “macellaio dei Balcani”, o ”Hitlerosevic”. Chissenefrega, quelle sono le voci del padrone, fanno il loro mestiere di ruffiani.. La loro dimensione è la menzogna strutturale, ontologica, in sintonia con il potere che servono. Nella nostra guerra stanno con ogni evidenza dall’altra parte della trincea. Non c’è scandalo. La collera e il disprezzo sono tutti per coloro che, dicendosi a sinistra, per la pace e per gli oppressi, pretendono di elargirci verità e che, facendo slittare sotto la commiserazione per le vittime (purchè inermi e non-violente) i paradigmi dei carnefici, strategicamente questi puntellano e agevolano.

Guardo la foto e la memoria srotola il filo della storia di un avvicinamento a Slobo che parte dal 24 marzo e termina pochi istanti dopo lo scatto di quell’immagine. Dopo aver sbranato oltre metà della Jugoslavia, in parte anche grazie alla collaborazione di “pacifisti” come Adriano Sofri, Alex Langer, Costruttori di pace, settori cattolici, ongisti voraci o semplicemente fessi (tipo l' International Consortium of Solidarity, poi riciclatosi in "Sbilanciamoci"), fondata sull’assenso agli inganni della guerra psicologica, nella notte tra 23 e 24 marzo le classi dirigenti europee e nordamericana si apprestano alla soluzione finale. La mattina del 24 marzo, a garanzia delle retrovie, insieme alla Nato entra in guerra il Tg3, il canale “di sinistra”, cosiddetto Telekabul, ma anche, a buon titolo, Telepapa (fin da quando un papa ultrareazionario e guerresco aveva sobillato i neofascisti – ma cattolicissimi – croati contro la federazione ancora ostinatamente socialista). La donna-cannone è Botteri, il direttore del circo è Ennio Chiodi, democristosinistro. Ci si dice, in riunione di redazione, da che parte stare, ci si accalora sul “dittatore”, su “pulizia etnica”, “ondate di profughi” e dunque, appunto, sull’ “intervento umanitario”.Tutti annuiscono, il tavolo della riunione pare un carillon. Armiamoci e partite. Da quel giorno non ho più messo piede in RAI, al Tg3. Di decente c’erano rimasti solo gli operatori e i montatori, anche perché, bravi per conto loro, non devono il pane a nessuna ruffianeria. E pochi giorni dopo partii, con la prima delegazione dalla parte degli aggrediti e tanto di telecamera, per Belgrado, quella delle macerie, della morte, della fame, della sfida-sfottò dei “target” sui ponti.

Si doveva passare da Austria e Ungheria, farsi taglieggiare dai rispettivi doganieri, scendere sotto le bombe per la Voyvodina a Novi Sad. Gli sgherri razzisti di Tudjman, cari al papa, non permettevano il passaggio. Chi frequentava i serbi era infetto per l’Occidente intero. Ci accompagna e assiste un piccolo partito comunista. Attraversiamo l’inferno, la resistenza, la quinta colonna degli aggressori (che la “dittatura” lasciava agire e ci aveva permesso di incontrare apertamente in piena Belgrado), fino al geno-ecocidio programmato di Pancevo e della Zastava. I serbi non si piegavano e non c’è momento più alto nella vicenda europea dopo la liberazione partigiana – che tedeschi e statunitensi riuniti intendevano vendicare – che quella, fortunosamente ripresa dai miei documentari, delle legioni di uomini e di donne, veri combattenti con l’arma nucleare della dignità, che sul Ponte Branco di Belgrado, sera dopo sera, facevano svettare bandiere jugoslave, cartelli “target” sul cuore, canti di orgoglio, incriminazione e resistenza, contro gli strumenti tonitruanti degli stragisti Clinton, Schroeder e il chierichetto col botto D’Alema. A Novi Sad i ponti erano stati sbriciolati, la raffineria s’inceneriva nell’uranio, la terra si scuoteva per terremoti da bombardamenti. A Belgrado il cielo si apriva ai terminator con la chimica della guerra meteorologica. Una volta, a Kragujevac tre missili ci mancarono di 50 metri.

Mi è rimasta impressa la temeraria calma del compagno di viaggio, Raniero La Valle. Una notte scampammo alla sorte dei neonati a cui le bombe avevano spento le incubatrici, fuggendo dall’albergo Intercontinental, subito dopo bucato da missili, e dai pressi dell’ambasciata cinese in fiamme, con dentro tre morti, mentre D’Alema e compari ammazzavano, nel nome della libertà di stampa, 16 giornalisti e tecnici della televisione serba (mai annoverati tra le sue vittime dall’associazione mercenaria Reporters Sans Frontieres). A Pancevo, la città della chimica e del petrolio, D’Alema e sodali avevano fatto in modo che le nubi e i liquidi tossici, sprigionati dai loro esercizi di sfoltimento dell’umanità, da aria, terra e acque pervadessero, fino a corromperli, vita e futuro di generazioni. A Kragujevac, la più grande industria dei Balcani era un cimitero uranizzato di macerie e di storia operaia. Ma c’erano ancora, dopo i missili e nell’uranio, gli scudi umani che avevano sfidato, inanellati attorno agli stabilimenti, la foja assassina degli umanitari. Ci avrebbero messo appena un anno a rimettere in piedi gran parte della fabbrica. Non solo quella.

Tornammo un anno e mezzo dopo: due ponti di Novi Sad, dei tre disintegrati, erano risorti, la Zastava era tornata a far correre due linee di montaggio. Nell’inedia e nel gelo delle sanzioni, tra le macerie delle loro case (ma migliaia erano già state ricostruite), con i corpi ancora caldi delle vittime sezionate dalle bombe a grappolo a Nis e in tanti altri posti, con il sangue avvelenato dalla guerra chimica, i serbi erano rivissuti per orgoglio e per vendetta. Nessuno pensava alla resa. “Serbi da morire!” titolai il documentario. Sotto il controllo di un presunto “dittatore”, alla faccia degli infiltrati, dei demonizzatori, di morte e rovina, degli ammnistratori dell'opposizione di destra che le libere elezioni del “despota” avevano installato nelle maggiori città del paese, nonostante il sabotaggio al servizio del nemico di una stampa al 90% in mano all’opposizione filo-imperialista, la Jugoslavia di Slobodan Milosevic aveva retto e si stava riassettando i vestiti laceri. A scandalo di una sinistra italiana miseramente subalterna, avevo potuto scrivere su un giornale serbo “Meglio serbi che servi”. Quella “sinistra” preferiva fraternizzare con i sedicenti oppositori “democratici” di Radio B-92, della televisione "Studio B" di Vuk Draskovic (poi ministro agli ordini del sottopancia Nato Xavier Solana), entrambi del circuito europeo Cia di “Radio Liberty”, entrambi foraggiati da George Soros. Preferiva una cosiddetta "Alleanza civica" di rinnegati, assetata di libero mercato, garantita da pretoriani Nato, chiamata “Zayedno”. Soprattutto, si era gemellata con l’altra articolazione Cia, il mix di sottoproletari e fichi dei quartieri alti chiamato “Otpor”, appena reduce da corsi di eversione tenutigli a Budapest e a Sofia da generali Usa. Eversione “non-violenta” fino al rovesciamento del governo legittimo, ma violentissima dopo, nell’occupazione delle istituzioni, nell’epurazione a bastonate e omicidi di sindacalisti, politici di sinistra, giornalisti onesti, maestranze non vendute. Quando questa coalizione del cialtroname opportunista e rinnegato colmò la piazza di Belgrado e poi invase il parlamento per bruciare le schede che avevano dato, nel settembre 2000, la vittoria alle sinistre, i miei reportage dal campo venivano cestinati dal redattore capo di Liberazione, Salvatore Cannavò (oggi leader, vedete quanto affidabile, del frammentino trotzkista "Sinistra Critica"). Cestinò anche le mie interviste ai capi di Otpor che esibivano grande fierezza per essere i fiduciari “dell’intelligence di una grande paese come l’America” e dichiaravano di auspicare l’avvento di una “democrazia all’americana” in cui una “manodopera a basso costo serba avrebbe fatto la fortuna delle multinazionali americane” e la si sarebbe fatta finita con la “demagogia della garanzia del lavoro, della sanità e dell’istruzione gratuite e per tutti”. Il compagno trotzkista Cannavò fu invece svelto a invitare “i compagni di Otpor” agli appuntamenti no-global. Ricordate, a monito perenne di cosa combinano ignoranza, viltà e opportunismo a sinistra, i titoli che dal "manifesto" e dal "Liberazione" aprirono a caratteri cubitali le prime pagine dopo il colpo di Stato che rovesciò Milosevic e pose fine alla sovranità e al socialismo serbi: "Belgrado ride", l'uno, "La primavera di Belgrado", l'altro. Come il "New York Times".

Tornai ancora a Belgrado, quando tutto era davvero finito. I serbi, la Jugoslavia, l’Europa, la pace, la verità avevano perso. Si poteva espandere a macchia di vetriolo, senza più oppositori, l’infame inganno di una “pulizia etnica” nel Kosovo, con la quale si volle giustificare la fuga di povere popolazioni dai bombardamenti Nato e l’espulsione di 300.000 serbi e rom innocenti ad opera degli ascari Nato e dei killer narcotrafficanti dell’UCK. Disintegrata la trincea jugoslava, smembrata una nazione democratica, progressista, antimperialista nei suoi segmenti etnici e confessionali, creata la piattaforma per la penetrazioni, bellica o con le “rivoluzioni colorate” tipo Otpor, verso Est, verso gli idrocarburi del Caucaso e l’oppio afgano, rinchiuso nel braccio della morte dell’Aja e nel cappio della diffamazione uno dei più onesti ed equilibrati uomini di Stato del nostro tempo, la strada era stata aperta al terrorismo imperialista globale e permanente.

A mio avviso, soprattutto misurando la vicenda jugoslava contro quella irachena, dove una Resistenza di popolo saggiamente predisposta dalla sua dirigenza, ha ostacolato la soluzione colonialista, a Slobodan Milosevic possono essere imputati solo due errori. Aveva resistito all’infame ricatto di Rambouillet, col quale, in cambio della pace la Serbia doveva farsi occupare dai briganti Nato, e quel gesto di forza e di dignità aveva mobilitato il suo popolo alla resistenza. Possono essere considerati errori - ma chi ne può avere certezza? -i due accordi successivi di Dayton nel 1995 e di Kumanovo nel 1999, seppure motivati dall’impegno, questo sì umanitario, di salvaguardare genti che avevano sofferto l’indicibile da un ventennale ostracismo internazionale, dalle sanzioni e dalle guerre. Possiamo immaginare, alla luce della vittoriosa guerra di popolo irachena, cosa sarebbe successo nella Serbia che aveva cacciato di sua sola mano la Wehrmacht, se il rifiuto della Pace di Kumanovo avesse costretto i mercenari della Nato a misurarsi con un esercito di popolo, pratico di ogni anfratto della sua terra e collaudato dal confronto con l’allora più potente esercito d’Europa. Certo sangue, lacrime, sacrifici inenarrabili, ma probabilmente l’avanzata del carnefice planetario sarebbe stata arrestata prima della trincea irachena. Quale governo europeo avrebbe potuto sostenere il peso di centinaia di suoi giovani militari caduti in un’operazione che si sarebbe evidenziata via via più criminale?

L’ultima mia Serbia l’ho vista qualche tempo dopo, a trauma collettivo subito, a futuro oscurato. Con il difensore di un popolo che aveva saputo imporre la sua agenda ai grandi, venduto e martirizzato in un paese lontano, sembra che si sia dissolta ogni capacità di reazione. Al vertice, coperte da un personaggio da incolore mezza stagione, Kostunica, si avvicendavano bande di malfattori e rinnegati. Era estate, ma neanche la stagione sorrideva a questo “volgo disperso che nome non ha”. Le strade di Belgrado, di Pancevo, di Kragujevac, di Nis, su cui ancora incombevano scheletri di corpi urbani che nessuno più faceva rivivere. Gli anfratti suburbani in cui era stato ammassato il milione di senza terra, senza casa, senzapatria, espulsi da Croazia, Bosnia, Kosovo. Passanti infreddoliti che sembrano perdersi in un vuoto post-storico, come nella polvere volteggiano prive di senso cartacce che un tempo erano alimenti, libri, manifesti, lettere. Ricordo il mio ultimo saluto, dall’autobus, a una protagonista della forza che aveva fatto rinascere la Zastava, una comunista, figlia di partigiano. Il suo sguardo mi riportava a quello di un vecchio palestinese davanti alla fotografia del suo villaggio perduto.

Un generoso lavoro di resistenza di compagni, riuniti nel Coordinamento Nazionale per la Jugoslavia (poi decaduto in autoreferenziale e ridondante memoriale), in pochi altri momenti di militanza, come “SOS Jugoslavia” e l’associazione di Trieste, e di pochi serbi della diaspora, per anni uniche voci di contrasto alla menzogna, ha dovuto ridursi a inascoltata denuncia di disgrazie epigonali, a scarsi interventi assistenziali, a ricordi. E, in perfetta solitudine, a una tardiva e perfino poco convinta mobilitazione in difesa di Milosevic e della verità sullo pseudoprocesso dell’Aja. Solitudine di cui possiamo ringraziare, oltrechè un pubblico offuscato dall’inquinamento mediatico di destra, di centrosinistra e di “sinistra”, anche la timidezza con la quale i personaggi di riferimento dell’area antagonista hanno risposto al martellamento demonizzatore. Quasi che corressero qualche inaccettabile rischio di carriera a compromettersi con la verità.

Personalmente ho potuto misurare la distanza che correva tra la percezione nella base di sinistra su chi erano i buoni e chi i cattivi nei Balcani, e la prudente riservatezza, i distinguo a mezza bocca, dei leader del movimento. C’è rimasta, nel desolante silenzio di voci balcaniche, la denuncia e il sostegno dell’unica bandiera all’apparenza non ammainata: Slobodan Milosevic, presidente della Jugoslavia, incarcerato all’Aja e ora ammazzato oberandone il cuore malato di prove insostenibili, poi avvelenandolo. Non si poteva tollerare che continuasse a sbugiardare i suoi boia, a vincere ogni confronto e quindi a validare la sacrosanta richiesta di risarcimenti del suo popolo. Tanto meno lasciargli tempi di ripresa accettando la richiesta di un breve periodo di cura a Mosca dove, peraltro, medici non al guinzaglio della Del Ponte avrebbero potuto scoprire la terapia assassina. Dove Slobo avrebbe potuto parlare con giornalisti non velinari e compromettere ulteriormente il gioco. Leggere gli atti del processo per credere. Leggere, invece, quanto ha scritto sull’evento l’unico quotidiano italiano ancora “diverso” , “il manifesto”. Messa in salvo un po’ di coscienza con la condanna dell’intervento Nato, ecco che si rilanciano e si riabilitano, contro ogni evidenza storica nel frattempo disponibile a chiunque, tutti gli stereotipi della gigantesca truffa. Si esonerano i mandanti della morte di Slobo, ormai inchiodati da elementi inesorabili, parlando sprezzantemente di “milioni di teorie e complotti a cavallo di fantapolitica e storie di spionaggio di altri tempi”; si parte definendo il difensore dell’unità jugoslava, l’unico dei personaggi di quella stagione né quisling, né chauvinista, “uno dei protagonisti della mattanza balcanica”. Si parla, riferendosi al famoso discorso di Kosovo Polje del 1989, in cui, pur garantendo ai serbi del Kosovo protezione dai pogrom albanesi sollecitati dai cospiratori imperialisti, Slobo s’impegnò come nessun altro leader delle provincie a salvaguardare i pari diritti di tutte le popolazioni jugoslave, come del lancio di una "grande e ipernazionalistica Serbia", avallando l’alibi dell’aggressione che sarebbe partita da lì a poco. Cerchiobottismo, si direbbe, che da anni ci rifila una specie di avallo ex post alla menzogna della pulizia etnica serba, ora diventata addirittura “campagna di terrore verso gli albanesi”, secondo quanto dettavano Giovanna Botteri e l’infiltrato radicale Antonio Russo, che sparava cazzate granguignolesche di matrice Nato da un finto nascondiglio a Pristina. Le porcherie di questo provocatore ebbero fine in Cecenia. Logicamente.

L’avallo viene con quel “*contro*puliza etnica” con cui lo "specialista" Tommaso De Francesco si ostina a definire le stragi degli ultimi serbi del Kosovo e che pareggerebbe implicitamente un qualche conto. Stesso avallo viene ripetutamente offerto, a scorno di tutte le documentate smentite, all’altra delle grandi truffe che, dagli attentati al mercato di Sarajevo in giù, hanno giustificato la distruzione della Jugoslavia: la “strage di Sebrenica”. Le bande Otpor, che certamente si erano trascinate dietro disillusi e illusi della sofferenza serba, oltre alle milizie armate del sindaco nazista di Cacak , diventano per Tommaso Di Francesco “la folla scesa in piazza a Belgrado per ottenere il riconoscimento della vittoria alle presidenziali di Vojslav Kostunica”. Sul discorso di Kosovo Polje, che non deve aver mai letto per intero, nella sua appassionata perorazione del pluralismo e delle pari dignità, ecco che viene riesumata la bugia del lancio di una “Grande Serbia”, che avrebbe tolto al Kosovo l’autonomia garantitagli da Tito. Possibile che un esperto giornalista non sappia come l’unica cosa che Belgrado tolse al Kosovo, già in pieno pogrom antiserbo ed antijugoslavo per conto dell’imperialismo, era l’assurdo e paralizzante diritto di veto sul legiferare delle altre repubbliche e della federazione intera? L’autonomia restò intatta, per quanto emissari di Washington, come Soros e madre Teresa di Calcutta, già vi stavano costruendo uno Stato parallelo, albanese, etnicamente pulito, eminentemente un narcostato al servizio della finanza occidentale. Con il concorso di un collega, anche lui da tramandare agli onori dei negazionisti della verità (non ci sono solo quelli dell’olocausto), il giornalista ripercorre proprio tutte le tappe dell’intossicazione: “estremismo nazionalistico che ispirava il suo regime”, “gestione di un paese solo apparentemente democratico” (dove pur si votava con una frequenza quasi maniacale tra repubbliche, federazione, amministrazioni locali, dove le grandi città venivano conquistate dall’opposizione monarchica e dove, in piena guerra, si andava e si veniva come Pisanu o Maroni si sognerebbe di lasciar fare), fino alle infamanti “collusione con le organizzazioni illegali”. Già quelle che avrebbero contribuito a formare il famoso “tesoro di Milosevic”, mai trovato, mai esistito, al punto che perfino i suoi detrattori hanno dovuto ammettere che Milosevic aveva come unico cespite il proprio stipendio.

Non basta a riscattare tanta aderenza al diktat propagandistico degli aggressori, il finalino con cui si mette in dubbio la credibilità giuridica di un tribunale dell’Aja, creato dal vincitore e la cui procuratrice ha respinto ogni addebito che milioni di cittadini colpiti avevano rivolto alla Nato dei 78 giorni di crimini di guerra. Sai, caro collega, una volta che ti sei piegato all’assunto principale, pulizia etnica, Sebrenica, regime autoritario, mafia, le tue sparate contro la guerra etnico-imperialista hanno la forza di una pistolettata ad acqua. Almeno i Disobbedienti, allora Tute Bianche, di Padova, una volta fatta la megacazzata di andare, in piena guerra, a Belgrado e, ospitati dalla Tv di Stato, di sbraitare contro il governo serbo aggredito e fraternizzare con forze d’opposizione dichiaratamente filoamericane, oggi se ne stanno zitti. Il gemellaggio con la radio Cia B-92, fatta allora passare per “radio di movimento”, gli deve ancora bruciare. Ma dubito che bruci a una Wilma Mazza di Radio Sherwood il ricordo di come i suoi picchiatori si fossero avventati, il 6 giugno ad Aviano, manifestazione contro la guerra, su coloro che alzavano bandiere jugoslave, li avessero colpiti e ne avessero stracciato i vessilli.

Sotto la foto di Slobo ora scorrono sullo schermo immagini di gente che porta fiori ai suoi ritratti. “E tu onor di pianti Ettore avrai, ove fia sacro e lacrimato il sangue per la patria versato…” Donne, uomini, vecchi e giovani serbi. Gente qualunque. Sono tanti, sempre di più. Mi ricordano un mesto e forte corteo di contadini e operai, di ex-partigiani e donne, in una ricorrenza lontana della morte di Tito. Furono aggrediti e sprangati da giovinastri scesi da Radio B-92. Vecchi operai coperti di sangue…”e finchè il sole risplenderà sulle sciagure umane”.Era un rigido autunno di qualche anno fa. I soliti pochi, non ligi, non vili, ancora una volta con un’inadeguata ma fedelissima rappresentanza serba, ci riunimmo davanti alla prigione-fortezza di Scheveningen. Ci dissero che di là, oltre il fossato e alle muraglie di bugnato, il carcerato poteva udirci. Centocinquanta combattenti contro la menzogna si misero a lanciare messaggi d’affetto urlando:”Slobo-Slobo”! Fino a quando energumeni olandesi in nere uniformi non c’imposero di tacere. Guai a trasmettere ulteriore coraggio, quello che ti viene quando scampi all’abbandono, a chi già aveva svergognato uno dopo l’altro i suoi accusatori mercenari, aveva costretto alla ritirata testimoni tanto grotteschi quanto istruiti per la bisogna. Pur di impedire che l’accusa al presidente jugoslavo gli franasse addosso, ai giudici e ai governanti Nato, facendo riemergere i mai considerati crimini Nato e lo spettro delle riparazioni dovute al popolo serbo, il tribunale dell’Aja, il giudice Meron e la pseudoprocuratrice Del Ponte (che chiamava la signora degli eccidi, Madeleine Albright, “madre del tribunale”) abbandonarono ogni parvenza di legalità, di etica giudiziaria e di umanità nei confronti del detenuto. Contro la sua volontà e contro il diritto gli imposero avvocati d’ufficio con i quali ci si rifiuta di parlare, di cui i tuoi testimoni non si possono fidare, che non ti riferiscono fatti rilevanti e che, con un conflitto d’interesse di fronte al quale impallidisce anche quello del malvivente nostrano, erano stati scelti tra i tuoi giudici! Nessuna autorità del diritto internazionale ha avuto mai da obiettare contro aberrazioni come queste, come la detenzione per cinque anni di un uomo affetto da ipertensione gravissima, l’imposizione di ritmi di udienza da stroncare un rinoceronte, l’espansione illimitata degli spazi e testimoni d’accusa e la riduzione a pochissimo di quelli della difesa (non per nulla Slobodan è stato fatto morire prima che fosse costretto a testimoniare il da lui citato criminale di guerra Bill Clinton, seguito poi dai succedanei D’Alema, Blair, Chirac e affini), la negazione di terapie richieste e l’obbligo a quelle non volute.

Milosevic, nel silenzio del sistema legale e di quello mediatico, fu rinchiuso in una vergine di Norimberga giudiziaria. Cionondimeno riusciva, passo dopo passo, a far emergere il vero volto, euro-americano, delle guerre balcaniche, dei massacri, delle pulizie etniche. Bisognava fermarlo. Lo si è fermato quando già aveva vinto e il Tribunale dell’Aja per i crimini di guerra in Jugoslavia era a tutti gli effetti destinato alla discarica della storia. Nelle ore prima di quella foto sul televisore, Slobo mi aveva raccontato un gran pezzo della vita sua e del suo paese. Un discorso la cui architettura erano fatti, date, citazioni. Ne uscivano i protagonisti della vicenda nelle dimensioni e con i profili che la storia conferma e confermerà: le ipocrisie dei negoziatori alleati e i trucchi di Rambouillet, le mille diffamazioni di una sistema imperialista che, essendo gestito da criminali, si era convertito in coacervo di Stati criminali, l’utilizzo di mafie e quinte colonne contro il governo democratico, l’ininterrotto uso dei termini “dittatore” e “despota”, le bugie sui famigliari: Mira Markovic che diventa “Lady Macbeth”, secondo un’iconografia classica degli stregoni della guerra psicologica, la stessa delle varie “Lady Antrace” o “Lady Veleno” irachene; la piccola boutique del figlio Marko che diventa la satrapica catena di negozi di un puttaniere che, in pieno bombardamento, si permette addirittura di costruire un parco giochi per bambini, magari per attenuare il trauma delle atrocità Nato… Ma anche il racconto della propria vicenda come barriera contro la spinta verso l’abisso di qualcosa che andava ben oltre la Jugoslavia. Slobo aveva parlato con voce piana, senza alterarsi, con qualche virata verso l’ironia, con qualche momento accorato. Poi la foto e ci siamo salutati, noi con la sensazione fredda di un qualcosa di terribilmente inesorabile, lui certo con la stessa consapevolezza, ma senza aggravarci dandocela ad intendere.

Curiosamente, tra i tagli di luce che dagli alberi neri piovevano sul viale, come fossimo davanti al banco di un “Tre palle un soldo” mi sfilavano nella mente le facce dei politici che accompagnano la stagione del nostro sconforto: pagliacci, imbonitori, trucidi, idioti, perversi, voraci, ottusi, volgari, osceni. Milosevic, alle nostre spalle nell’arco del portico, ci salutava con la mano. Strana inversione : noi partivamo, ma restavamo; lui era fermo lì, ma capimmo che sapeva di essere lui ad andar via, a lungo. Quell’intervista, oggettivamente storica, la portai all’allora mio giornale, “Liberazione”, quello di Bertinotti. L’omologa del capo, Rina Gagliardi, la rifiutò con la seguente motivazione, di chiaro tenore democratico e professionale: “Mica ci possiamo appiattire sulle posizioni di un Milosevic!”. E già, “il macellaio dei Balcani”… Passai l’intervista a gratis al maggiore quotidiano italiano, “Corriere della Sera”, che ovviamente la pubblicò. A proposito di ignavia. Ne hanno espresso uno tsunami i capi e capetti del movimento, sia quelli che si erano squali-ficati a Sarajevo, cattopacifisti, sindacalisti, disobbedienti imbroglioni o imbrogliati, missionari, ambiguoni ed infiltrati travestiti da non-violenti, sia gli antimperialisti. Antimperialisti finchè si vuole, ma rettificare le infamie su Milosevic e schierarsi dalla parte di questo autentico combattente antimperialista, beh, sarebbe imbarazzante, magari pericoloso. Ne avete ascoltato in questi giorni il silenzio da sordomuti? Niente giornata della memoria per la Serbia, per Milosevic. Slobo, pochi giorni prima, aveva detto ad amici che non si sarebbe arreso a nessuno, se non alla morte. Ha mantenuto la sua promessa e, come aveva denunciato gli assassini del suo paese e gli iniziatori di una guerra globale contro l’umanità, prima di essere ucciso aveva additato i suoi boia e i loro fini.

Ma che la morte lo abbia sconfitto è tanto poco vero quanto lo fu nel caso del Che. Gli ignavi di allora furono confusi, i bugiardi smascherati, i vili svergognati, i criminali puniti, o quanto meno condannati dagli uomini. E il Che vinse in Bolivia. Quarant'anni più tardi, ma vinse. Così sarà, a tempo debito. Qualche serbo c’è ancora. Rispondendo alla domanda in televisione su cosa pensasse di Slobodan Milosevic, il calciatore Sinisa Mihailovic, quello del “target” sotto la maglia, ha detto, senza un filo di esitazione e con decisione irrevocabile, “*E’ il mio presidente!*” Vorrei poter dire la stessa cosa anch’io. La dico.

Pubblicato da Fulvio Grimaldi alle ore 09.39

 

Aprile 21st, 2010 at 6:01 pm

L’appello del giornalista Fulvio Grimaldi

Cari amici che avete la generosità di aver seguito e di seguire il mio lavoro a suo tempo sui giornali e in tv (Tg3), ora in rete e con i video (documentari sulle situazioni di conflitto), vi racconto una vicenda del tutto esemplare per il quadro in cui ci muoviamo. E vi chiedo adesioni e supporto. Potrebbero essere importanti per l’esito finale.

Il 9 maggio del 2003, collaboratore a contratto del quotidiano del PRC Liberazione, scrivevo nella mia rubrica un articolo su recenti accadimenti a Cuba che avevano visto la condanna a morte di tre terroristi, dirottatori a mano armata di un’imbarcazione cubana, e a pene detentive di altri 75. La valutazione di quei fatti non corrispondeva a quella data dall’allora segretario nazionale Fausto Bertinotti, né tantomeno allo tsunami di attacchi a Cuba da parte della destra mondiale, unanimi tutti nel deplorare il trattamento riservato a “intellettuali e giornalisti dissidenti”. Le mie informazioni, poi nel tempo confermate da documenti incontrovertibili, mi avevano fatto invece rivelare nell’articolo come quei “democratici dissidenti” fossero al soldo degli Stati Uniti e stessero preparando una campagna di azioni terroristiche, di cui il dirottamento sarebbe stato solo il primo. Erano cioè mercenari al soldo di uno Stato che lavorava per la distruzione della rivoluzione cubana. Il giorno successivo alla pubblicazione del pezzo, in cui peraltro deploravo quella come tutte le condanne a morte, fui licenziato su due piedi, pur nel pieno di una campagna del PRC in difesa dell’articolo 18 aggredito. Non ricevetti la lettera di prammatica del direttore, Curzi, ma solo una telefonata dell’amministratore. Chiesi di ricevere una comunicazione ufficiale. Non la ricevetti. Ma alla rabbia di numerosi lettori e compagni del PCR, che si espressero contro il brutale provvedimento con oltre 2000 firme, Bertinotti, Curzi e la vice-direttrice Gagliardi risposero sul giornale e su altri mezzi d’informazione (Il Foglio, Radio Anch’io), affermando cose false: che avrei deviato dal tema assegnatomi, l’ambiente, o che avrei deviato dalla linea politica del partito.

La prima giustificazione era falsa, perché fin dal primo giorno della mia collaborazione, 1999, avevo potuto occuparmi in articoli e rubriche di ogni tema che volessi scegliere. Una smentita radicale veniva poi dalle mie corrispondenze di guerra dai conflitti nei Balcani, in Palestina e in Iraq, tutti viaggi effettuati a spese mie. Anche la seconda spiegazione era indebita, giacchè della linea politica della maggioranza si trattava semmai, non di quella di tutto il partito, in quanto una forte minoranza appoggiava le mie valutazioni. Inoltre era sempre stato affermato dai vertici del partito che nel partito stesso, come nel giornale, doveva essere rispettato il massimo della dialettica e del pluralismo. Un articolo dello Statuto del PRC garantiva addirittura il diritto degli iscritti di manifestare le proprie critiche alla linea del partito, perfino all’esterno del partito stesso. Il diritto di replica alla false affermazioni dei vertici, assicurato dalla legge sulla stampa, mi venne sistematicamente negato.

Da questa vicenda ricavai un forte danno, oltreché morale, professionale, di perdita di credibilità e di prestigio tra compagni e lettori, anche di riduzione del bacino di coloro che erano interessati ai miei documentari e libri. Feci causa e la vinsi. Il risarcimento del danno fu calcolato dal giudice in 100mila euro. Ora, sette anni dopo, il giudice d’appello, contravvenendo a una consolidata giurisprudenza in materia di cause di lavoro, ha rovesciato tale sentenza e mi ha imposto di restituire quella somma. Somma, che forte appunto di quella giurisprudenza, ho impegnato in gran parte nei viaggi che mi hanno permesso di realizzare i miei documentari da Iraq, Palestina, America Latina, Balcani. Si ricordi che quando vinsi la causa, Bertinotti era il segretario di un piccolo partito di opposizione, quando si avviò l’appello, però, l’uomo aveva assunto la terza carica dello Stato.

A dispetto della sostanziale ingiustizia del provvedimento, ho offerto alla controparte una transazione per metà della somma. E’ stata respinta e mi si è manifestata l’intenzione di arrivare all’esecuzione, cioè al pignoramento di quanto possiedo. Sarebbe la fine della mia attività di militanza giornalistica, con ovvia soddisfazione di non pochi. Ho scritto a Paolo Ferrero, segretario del PRC, a Dino Greco, direttore di Liberazione, e a Roberto Natale, presidente della Federazione Nazionale della Stampa Italiana. Ad oggi, nessuna risposta.

Credo che a questo punto solo una forte pressione di quel pezzo di società che crede nell’informazione libera e nella libera espressione del pensiero, specie in un giornale e in un partito che si dicono comunisti, possa convincere i responsabili dal recedere da un comportamento che viola ogni principio normativo, etico e deontologico della mia professione. In attesa di altre iniziative cui sto pensando, come una conferenza stampa e uno sciopero della fame davanti alla sede di Liberazione e del PRC, chiedo alle persone di buona volontà di esprimere qui e in tutti i modi la solidarietà a questa causa di democrazia, giustizia e libertà. A una voce che rischia di essere soppressa. Grazie a tutti.

Fulvio Grimaldi    http://lpp.opencontent.it/blog/?p=1997   

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1999-2009. La criminalità organizzata stupra la Jugoslavia

La sua solitudine è peggio di Gaza. Credo che si chiami "Serbia".
30 marzo 2009 - Fulvio Grimaldi

E’ il 24 marzo 2009 e io sto dicendo delle cose a un paio di centinaia di persone. Ma le parole escono e se ne vanno come per conto loro, come quando la Bialetti spurga il caffè e certamente non pensa "caffè". Anch’io non penso a quello che sto dicendo. Non ce n’è bisogno. E non perché questo discorsetto al seminario del Forum di Belgrado per un Mondo di Uguali, nel decennale dell’aggressione Nato a quel che restava della Jugoslavia, l’abbia preparato con grande accuratezza, quasi a memoria. Piuttosto perché quei concetti, che ora viaggiavano come suoni nell’enorme sala del Centro Congressi Sava, erano sedimentati, solidificati, avevano la consistenza della gramigna che non richiede preparazione, cure. Sono cose che mi porto dentro fin da dieci anni fa, fin da quando mi trovai a puntare la telecamera sulle facce ferme e sui canti del popolo di Belgrado allineato sul ponte Branco, inerme, in una sfida ai codardi killer dal cielo, killer della Nato, killer come l’inserviente al pezzo Massimo D’Alema. Sul ponte Branco c’era Antigone. Target , noi siamo pronti a morire, voi no, voi solo a uccidere. Noi siamo l’umanità, voi la barbarie. Ma poi non importava neanche tanto quanto andavo dicendo, lì, in quella specie di cosmodromo. Prima di me avevano parlato ben altre voci, ben altri testimoni di quel nuovo mare di sangue sgorgato dal cuore d’ Europa dopo il mattatoio interimperialista della II guerra mondiale. Clinton e i suoi eurosbirri ne avevano fatto il tappeto rosso per gli stivali chiodati di chi si apprestava alla "guerra infinita". Al richiamo di Zivadin Jovanovic, già ministro degli esteri del martire Slobodan Milosevic e indomabile cultore della memoria, dell’accusa e della promessa serba, con il suo Forum di Belgrado, erano accorsi Ramsey Clark, l’altro americano per eccellenza, sempre primo a fianco delle vittime di quella nazione di cui era stato ministro della Giustizia, Michel Chossudovsky, il controinformatore canadese con sulla penna le tacche dei tanti disvelamenti di delitti e inganni Usa, Peter Handke e Juergen Elsaesser, gli scrittori di lingua tedesca che hanno rovesciato il paradigma imperialista, con i suoi ottusi orecchianti dei partiti di "sinistra", che rovesciava l’equazione carnefici-vittime nel suo contrario. E Diana Johnstone, la prima, grandissima vindice della verità di quanto davvero succedeva nei Balcani e nel Kosovo affidato dall’impero ai suoi gangster di passo. Tanti altri, da quattro continenti. E poi i serbi che non si rassegnano.

In quella specie di dissociazione per la quale le parole andavano da una parte e i pensieri da un’altra, vedevo non le ordinate file di banchi e poltrone di un auditorio, con quella folla di inconsolabili della Jugoslavia perduta, della Serbia mutilata, della verità negata, ma rivedevo sotto il palco nella grande piazza della Repubblica, scintillante di tricolori con la stella rossa al centro, una folla tumultuante con i target della sfida e della dignità fissati sul petto. Una folla che invocava e assicurava resistenza. La Serbia era ancora viva, la Jugoslavia non era ancora persa. In Europa non tutto era precipitato nella collusione con il verminaio dei demoni, nella melma della resa. Da quel palco, e poi sui giornali e alle televisioni che mi intervistarono, dissi una frase per la quale in Italia i compagni – i compagni! – mi avrebbero poi pesantemente strigliato: "Meglio serbo che servo ". Facile assonanza, vero, ma sacrosanta verità. Scandalosa per coloro che si erano acconciati a scimmiottare le perfide demonizzazioni degli "ipernazionalisti serbi". "Nazionalisti" serbi al pari degli "estremisti" palestinesi e dei "terroristi" iracheni.

Quando la mattina dopo le prime bombe su Belgrado, nella riunione di redazione del TG3, ci venne impartita la nozione dell’ "intervento umanitario" , da sostenere come verità incontestabile, Giovanna Botteri si scaraventò sui profughi kosovari per estrargli, a colpi di ricatti umanitari (ricordate i campi dalemiani dell’Operazione Arcobaleno, poi finiti sotto processo?), orrori e anatemi sui serbi, io lasciai la Rai per sempre e me ne andai con una telecamera a Belgrado. A Novi Sad erano stati disintegrati i più bei ponti sul Danubio e la raffineria in fiamme spargeva veleni nel fiume e nei polmoni, a Pancevo l’enorme complesso petrolchimico bruciava e assolveva alla funzione assegnatagli dalla Nato di contaminare acque, terre, aria a futura moria di questo "popolo di troppo". A Belgrado due missili sventrarono l’albergo al quale eravamo destinati e, un attimo dopo, l’ambasciata di un paese, la Cina, che non condivideva l’accondiscendenza del fedifrago russo Eltsin nei confronti degli aggressori: a buon intenditor, un paio di missili. C’è una frase dolorosa che ricorre in Serbia, "ci fosse stato allora Vladimir Putin!". Il modo con cui la Russia di Putin ha saputo risollevarsi dalle vergogne degli oligarchi mafiosi ossigenati dagli Usa, con cui ha saputo rispondere all’avventura sanguinaria contro l’Ossezia del manutengolo georgiano, rende bruciante il rimpianto.

Venivano disintegrati ospedali, scuole, asili, case, ponti, treni, centrali elettriche, tra i 3.500 uccisi da Clinton e dai suoi furieri europei c’erano i bambini delle incubatrici cui era venuta a mancare l’elettricità. Già allora, prima di Baghdad, prima di Gaza, si capiva che gli interventi umanitari erano mirati a eliminare pezzi di specie umana. Oltrechè a distruggere infrastrutture la cui ricostruzione poi, a colonizzazione completata, avrebbe gonfiato i forzieri delle imprese dei paesi assassini. Da Vienna, dove era scappato, il serbo Djindjic dettava ai topgun gli obiettivi da colpire. Sarebbe poi stato innalzato al rango di premier-fantoccio da coloro cui aveva venduto la sua gente. Ma una mano ignota gliela avrebbe poi fatta pagare e avrebbe restituito scampoli di dignità ai serbi.

La Zastava, la più grande fabbrica dei Balcani, cuore operaio della Serbia del socialismo autogestito, era stata polverizzata da 22 missili, lanciati anche sugli operai postisi a scudo umano del lavoro. C’erano testate all’uranio, sulla Zastava, come sull’aeroporto militare di Belgrado e su tanti altri obiettivi. Nella prima guerra del Golfo avevano dato buona prova: nel giro di quattro anni i casi di cancro erano decuplicati e bambini deformi, senz’occhi, senza genitali, con le braccia monche che nascevano dallo stomaco e i crani aperti sulla materia cerebrale, nascevano più numerosi dei figli dell’agente Orange di memoria vietnamita e della massima stragista imperiale Monsanto (oggi in azione con gli OGM). Ci ricevettero i dirigenti sindacali che, con la fuga dei padroni, Fiat in testa, si erano messi a capo delle macerie e da subito avevano iniziato a rimettere mattone su mattone, ferro su ferro. Uscendo da lì, ci inseguirono due missili. Ricordo con un sacco di simpatia, accanto a noi buttatici dal pullman, un Raniero La Valle che, con i suoi corti passetti, trotterellava impassibile a esaminare i crateri. Non c’era solo Djindjic, c’erano quelle pustole di vaiolo che sono le spie. Tempestivamente telefonavano a chi di dovere, solitamente ad Aviano, con l’indicazione di qualcuno o qualcosa da azzerare. Li abbiamo avuti anche a Gaza e, giustamente, non sono sfuggiti alla punizione di Hamas. Intanto a Nis piovevano bombe a grappolo destinate al mercato pieno di gente e su Fruska Gora, il più bel parco naturale dei Balcani, i bombaroli avevano esercitato il loro odio per l’integrità di ambiente e animali. Contemporaneamente il Kosovo, in difesa del quale si pretendeva di aver allestito quell’apocalisse, veniva annegato nell’uranio. Serviva a far scappare torme di terrorizzati da attribuire alle "atrocità" serbe.

Un anno dopo, solo un anno dopo, la Serbia si era rimessa in piedi. Una riserva di vita e di volontà non stroncata neanche da dieci anni di feroci sanzioni e poi dalla più feroce aggressione prima dell’Iraq. Due ponti su tre a Novi Sad erano tornati transitabili, la Zastava, un autentico prodigio dell’orgoglio operaio, rarissimo bene nell’ imbastardito Occidente di oggi, aveva già ripulito tonnellate di detriti e rimesso in funzione due linee di montaggio. C’era un fervore di ripresa che aveva un grande e nobile riferimento, il presidente della Federazione ancora jugoslava, Serbia-Montenegro, Slobodan Milosevic. Più diffamato di lui, con la piena complicità dell’idiozia o del servilismo delle sinistre, c’è forse solo Saddam. Toccava toglierlo di mezzo. E chi meglio del fidato Djindjic? Attuato il colpo di Stato del’ottobre 2001 con le milizie "nonviolente" di Otpor, primo esempio di "rivoluzione colorata" organizzata dalla cosca George Soros-National Endowment for Democracy"- Cia, Djindjic consegnò l’estremo difensore di una sovranità e di un socialismo senza pari in Europa a una delle più nauseanti prostitute nella storia della magistratura mondiale, Carla del Ponte, pubblico ministero nel tribunale dell’Aja, illegittimamente allestito e pagato dai cannibali Usa, con per presidente un’altra oscenità europea, l’italiano Antonio Cassese (successivamente impiegato per la destabilizzazione colonialista del Sudan). Djindjic ricevette 30 milioni di dollari. La cifra trenta ne sancisce l’identità.

Dal TG3 ero passato a "Liberazione", il foglio del PRC, allora sotto il compagno comodissimo a tutti e a chiunque, Sandro Curzi. Ne ero l’inviato ufficiale nei Balcani. Rispondevo, oltreché a Curzi, di cui ogni arto pendeva dai fili di Bertinotti, a un certo Salvatore Cannavò, caporedattore esteri che, in combutta con il responsabile esteri del partito, Ramon Mantovani, faceva in modo che la linea del giornale su avvenimenti come l’assalto Nato alla Jugoslavia, o il genocidio israeliano dei palestinesi, o la satanizzazione degli iracheni, fossero compatibili con lo scavo che il monarca stava compiendo per penetrare dal basso nei salotti del potere ufficialmente avversato. Difatti, prima di rendere l’anima politica a un giusto signore, la nuova talpa Bertinotti venne premiata con la terza carica dello Stato. Le mie corrispondenze da sotto le bombe e poi dalla Jugoslavia che si rimetteva in piedi e in sesto già avevano sollevato malumori bertinotteschi e i rimbrotti del suo ancellame giornalistico. Ma questo fu niente rispetto a quanto mi capitò nell’ottobre belgradese del 2001. Elezioni vinte dalla sinistre, schede della vittoria bruciate in parlamento da Otpor, l’organizzazione di miliziani Cia che poi avrebbe istruito gli affini in Ucraina, Georgia, Libano, Turkmenistan, Venezuela (dove li smascherarono e buttarono fuori a calci), Milosevic agli arresti domiciliari, la teppa in piazza a bloccare il paese, massacrare di botte sindacalisti ed esponenti di sinistra, occupare la Tv. Scrissi tutto questo, mandai le interviste con i capi di Otpor che, fierissimi, ammettevano di essere "sostenuti dal servizio segreto del più grande paese democratico" , di essere stati addestrati a violentissimi moti di piazza nonviolenti da generali Usa a Budapest, di vaticinare una Serbia Nato piena di multinazionali "attirati da una forza lavoro qualificata e a basso costo". Al rientro scoprii che Cannavò aveva cestinato tutto. Anche un articolo in cui ponevo a paragone i nostri lager per nomadi ai quartieri di belle case allestite per i Rom dal governo serbo e dalle associazioni di solidarietà ad esso riferite: "Troppo filoserbo " rampognò il Cannavò, "sei forse pagato da Milosevic?" Meno male che per rispondere a questo supergiornalista, oggi ahinoi dirigente di una micropartito trotzkista ("Sinistra critica", che forse sta per "in condizioni critiche"), non mi sarebbero bastate le cadenti forze di vegliardo. Incompetenza, boria, cretinaggine e ignoranza abissale della professione furono infine coronate dal rifiuto di pubblicare la mia intervista a un Milosevic che, dalla frode inflittagli con l’accordo di Dayton da Richard Holbrooke (oggi comandato dal buon Obama ad analoghi uffici in Afghanistan e Pakistan), fino al momento del suo confinamento ai domiciliari, mi aveva rifatto la largamente ignorata storia della cospirazione contro il suo paese. "Sembreremmo appiattiti su Milosevic", spiegò la virago che allora faceva da vice a Curzi e che poi Bertinotti premiò con lo scranno in parlamento. Lì prese coerentemente a svolgere i suoi servigi al governo di guerra concentrandosi su Saddam e sull’Iraq. Era l’ultima intervista concessa dal presidente prima del suo rapimento e consegna agli sgherri dell’Aja. A pubblicare l’intervista fu poi il "Corriere della Sera" che gli scoop li riconosceva.

Dall’inizio della strategia balcanica messa in campo dai determinati eredi di fascio e svastica fin dai primi anni ’90 e del tutto integrata al programma Usa-UE di rapina, distruzione e genocidio, i nostri sinistri avevano, per la parte ottusa, studiato e capito niente, forti di deformate ma arroganti eredità analitiche e, per la parte rinnegata, opportunisticamente e vilmente allineato le proprie valutazioni alle truffaldine macchinazioni delle élites guerrafondaie. Coprendosi le vergogne collaborazioniste con piagnistei sulla "violenza di tutte le parti" , erano partiti in pellegrinaggio per Sarajevo contro il "nazionalismo" di chi difendeva quella che era stata la più avanzata esperienza sociale d’Europa dai veri nazionalismi etnico-confessionali. Tribalismi e sciovinismi con cui si puntava a frantumare il pluralismo democratico della Jugoslavia, eliminare uno spazio di sovranità che impediva l’espansione del brigantaggio Nato verso Est, liquidare un modello di organizzazione sociale non capitalista, creare corridoi energetici a dominio multinazionale, costituire mafiostati proni a ogni ricatto imperialista, stabilire nel Kosovo, etnicamente pulito dai serbi e da altre minoranze riottose, il proconsolato di bande criminali che garantissero il transito verso i mercati occidentali di quel flusso di stupefacenti al quale si affida un ruolo importante nella salvezza del sistema. Il tutto garantito dalla più grande base militare Usa, la Bondsteel kosovara, costruita nel mondo dopo il 1945.

A questo scopo servivano un "dittatore" Milosevic che, reggendo un paese dai venti partiti politici, dei quali 18 di libera opposizione e al governo nelle maggiori città serbe, con una stampa al 92% asservita agli interessi occidentali, era probabilmente il più democratico governante d’Europa; una "pulizia etnica" nei confronti di kosovari albanesi che era la deformazione della legittima difesa di uno Stato sovrano dall’eversione banditesca ordita a Washington, Roma, Berlino, Vaticano e che culminò con l’espulsione di 300mila serbi e rom e la distruzione di 150 monumenti storici serbo-ortodossi; una "tragedia bosniaca" sostenuta dalla balla Nato e sofriana di granate "serbe" sul mercato di Sarajevo, che erano invece partite da cannoni bosniaci (modello 11 settembre), e corroborata da una falsa "strage di Sebrenica" che serviva a coprire le vere stragi compiute dal bosniaco Naser Oric ai danni dei villaggi serbi; la satanizzazione dei leader serbi Karadzic e Mladic, cui si doveva negare il sacrosanto ruolo di difensori di una comunità serba che si rifiutava di restare vittima della riconfigurazione colonialista dei confini.

Tutto questo doveva poi trovare la sanzione definitiva nel processo e nella condanna all’Aja di Slobodan Milosevic, sotto la ferula, teleattivata da Washington, di Carla Del Ponte. Un obbrobrio giudiziario, ripetuto poi nei confronti di Saddam Hussein, con il quale si puntava ad occultare sotto una sentenza abnorme le spaventose responsabilità euro-statunitensi, comprese quelle del recidivo criminale di guerra D’Alema ("Lo rifarei" , dichiarò il barbieruccolo di Gallipoli all’atto della consacrazione dell’indipendenza del narcostato kosovaro), nelle devastazioni e negli stermini di massa della Jugoslavia. Il gioco fallì per la totale incapacità di dare credibilità anche ad una sola delle mille nefandezze attribuite al presidente jugoslavo. Di fronte alla sua coraggiosa e documentata azione difensiva si sgretolarono tutte le accuse e al sicario Del Ponte e ai suoi mandanti non rimase che fare morire Milosevic in carcere, lui e altri coimputati. Gli fu negata l’assistenza sanitaria che i cardiologi russi avevano diagnosticata indispensabile e che si erano dichiarati pronti a fornirgli.

L’intera, mostruosa costruzione di menzogne allestita da chi stava sbranando una preziosa, insostituibile, componente progressista d’Europa fu sostanzialmente condivisa dalle sinistre italiane. Cannavò e soci fondevano lacrime di coccodrillo sulle vittime dell’aggressione con l’avallo incondizionato a tutte le mistificazioni che dovevano agevolare l’aggressione e, da noi, l’azzeramento dell’articolo 11 della Costituzione. Gli ascari di Otpor, già riconoscibilissimi allora, furono salutati come "costola del movimento pacifista e no-global" e invitati a convegni e celebrazioni. Gli sprovveduti ed equivoci Disobbedienti di Casarini facevano comunella a Belgrado e a Padova con i provocatori di Radio B-92, del circuito Cia di "Radio Liberty", riccamente foraggiati dal destabilizzatore ebreo ungherese George Soros. Il rovesciamento golpista del patriota Milosevic fu salutato da "Liberazione" con l’indecente e criminale titolo "Belgrado ride". Il "manifesto", sul quale Tommaso di Francesco, del tutto sprovvisto di autonomia di giudizio, insiste a cianciare di "contropuliza etnica" nel Kosovo affidato al governo dei narcotrafficanti e tagliagole Hashim Thaci e Agim Ceku, avallando così la truffa di una mai esistita pulizia etnica serba, non fu da meno e titolò: "La primavera di Belgrado". Ennio Remondino, salutato come l’alternativa onesta alle tendenziosità dei trombettieri dell’imperialismo che imperversano sui grandi media, ancora oggi non manca di infiorettare i suoi funambolismi retorici sui Balcani con il riferimento al "despota" Milosevic. E' stato il trionfo di una simmetria che doveva superare lo jato tra colpevole e vittima, rafforzando implicitamente le ragioni del primo. Gli diedi il nome di
"nè-nè", di notevole successiva fortuna. Nè con la Nato, nè con Milosevic. L'apogeo dell'opportunismo. Ponzio Pilato.
Non stupisce se con questo retroterra mediatico e politico, siano sparute e imbelli in Italia le realtà organizzate che si propongono come fonti di informazioni e solidarietà con i popoli massacrati della ex-Jugoslavia. A parte qualche minuscola, ma dinamica e generosa presenza a Torino ("SOS Jugoslavia", pure presente a Belgrado con Enrico Vigna) e a Bari, che opera tentativi di memoria, solidarietà materiale e aggiornamento, esiste un autoproclamato Coordinamento Nazionale della Jugoslavia che riunisce intorno al classico capetto autocentrato alcuni nostalgici ben intenzionati, ma impegnati più che altro nell’archeologia storica dei Balcani e nell' ormai estenuante rievocazione dei delitti storici del fascismo da quelle parti. Quello che sarebbe il compito fondamentale di una costante informazione sugli esiti attuali dello stupro jugoslavo, di assidui contatti con quel poco che, particolarmernte in Serbia, ancora si muove a contrastare la devastazione sociale e ideologica e la spinta dei governanti fantoccio verso la svendita della Serbia all’Unione Europea, viene sostituito dalla ricerca di ombrelli politici alterni, d'occasione, caratterizzati da frustrati settari dell’autopromozione politica. Massima preoccupazione pare essere la gara a impedire che altri possano assumere ruoli di interlocutori fattivi con le forze della resistenza. Un classico della disperante sinistra italiana.

Il messaggio dominante di tutte le voci del seminario di Belgrado è stato la denuncia di una Nato che, con il concorso del bombardiere D’Alema, in piena aggressione era stata trasformata da alleanza difensiva in strumento di offesa bellica a raggio mondiale. Quella Nato, con le sue basi che fanno, insieme al servilismo di tutti gli schieramenti politici succedutisi al governo in Italia, del nostro paese un paese vassallo, del tutto privo di autonomia e sovranità, i cubani la chiamano "il patibolo dell’umanità". Atterrisce vedere come dal discorso delle forze di sinistra italiane, nessuna esclusa, quelle voci siano state del tutto espunte e a parlare di sovranità da recuperare, di basi da chiudere, di Nato da scacciare, si passi per polveroso residuato di battaglie fuori tempo. Allora, ancora una volta, "meglio serbo che servo". Terminato il seminario c’è stata una manifestazione nella centrale Piazza della Repubblica. Poche persone, forse tremila, per un evento di tale portata. Una folla smarrita e confusa. Nessun Milosevic all’orizzonte. La Jugoslavia svanita dall’immaginario collettivo, il partito di Slobo, il socialista, cooptato nel governo dei fantocci. Tanta frustrazione e tanta rabbia che s’incanala verso velleitarismi impotenti: "Dateci le armi!" gridavano gruppi di teste rasate sotto le bandiere della Jugoslavia monarchica e poi, tremendo, "via i comunisti !", con qualche sassata al gruppetto del comunista Titanovic. Il trauma, l’abbandono di tutti coloro che avrebbero dovuto essergli vicini, a parte la Russia nuova, nessun segnale di amicizia, di solidarietà. Tutti d’accordo sulle bugie che strangolarono la verità dei serbi. Non c’è rassegnazione, forse, ma stagnazione sì, e disorientamento. Hanno fatto più danno i rinnegati e disertori che il nemico. Come sempre. Sul ponte Branco non c’è più nessuno. Penso che anche i palestinesi dopo essere stati annichiliti e squartati nel 1948, ci misero vent’anni prima di riprendere coscienza di sé e generare i fedayin e poi le intifade e poi l’eroica resistenza di Gaza.

Lungo la Kneza Mihaila, l’isola pedonale dei bei negozi al centro, sfilano ancora le filiformi bellezze belgradesi, bionde che si consolano tirandosela come se l’avessero inventata loro. I negozi esibiscono le trucide griffe italiane, c’è Banca Intesa, italiana, Banca Raiffainer, austriaca, la Deutsche Bank. Nelle grandi librerie quando gli chiedi qualche testo di teoria politica, Marx, Engels, ti guardano come se avessi chiesto un osso di dinosauro. Non ce l’hanno. Il palazzetto liberty dove s’erano insediati gli infiltrati di Otpor e che avevo visto in pieno embargo luccicante di computer e telefonini modernissimi, scrivanie di mogano e arredi nuovi di pacca, è abitato dai manager dei nuovi predatori. Finisco in quella che era la mia trattoria preferita. Al posto dell’anziana ostessa dagli occhi strabici e dall’affettuosità casareccia verso gli ospiti, tutti subito amici, c’è un grosso tizio con la testa a cocomero, con lo sguardo fessurato e infido, pare Gennaro Migliore. Non ha sorrisi, non ce l’ha quasi nessuno da queste parti. Ma quando arriva un trio trambustoso e vociante, dall’aria inconfondibile dei boss, si piega in due, offre tavoli, sposta sedie, allarga le fessure a smisurato sorriso, sposta verso di loro una stufa a gas che prima mi stava accanto.

Al tavolo di fronte, sola, con una sigaretta dopo l’altra tra le lunghe dita bianche, una donna immobile. E’ sui quaranta e, dunque, non può non averle viste tutte. E’ pallida e le ciglia tracciate dalla matita scorrono alte, come usava in decenni lontani, su occhi che non piangono ma sanno di pianti e che fissano qualcosa che non sta nella stanza, ma dentro di lei. I capelli sono lunghi e lisci sulle spalle e hanno una ricrescita di settimane. Ogni tanto guarda la punta della sigaretta, poi la tovaglia, ma sono certo che non vede quello che guarda. Quando rivolge gli occhi per un attimo verso di me, lo sguardo si arena molto prima di raggiungermi. Tutto quello che guarda pare essere chiuso dietro la barriera dei suoi pensieri. E’ bella ed è stanca. E’ come immersa in un vuoto immenso. Sopra, sulla parete, la classica icona alla bizantina della madonna col bambino. E’ lì da quando sono entrato. E’ lì immobile quando me ne vado, dopo più di un’ora. Aspetta. Che cosa aspetta? La sua solitudine è peggio di Gaza. Credo che si chiami "Serbia".

http://www.peacelink.it/conflitti/a/29122.html

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Da: Fulvio Grimaldi [mailto:bassottovic@libero.it]                        

QUESTI SONO PEGGIO (2)...

 

SADDAM IMPICCATO,

BUSH LIBERO,

PRODI FANTOCCIO DEL VENTRILOQUO SERIALKILLER, SINISTRE ALLA DERIVA, PACIFISTI NELLA MERDA

 

tra Stati macellai e veltronisti vernacolari che piangono su fantocci bruciati e non su Saddam Hussein

 

MONDOCANE FUORILINEA

30/12/06

di

Fulvio Grimaldi 

 

In tempi di menzogna universale dire la verità diventa un atto rivoluzionario

(George Orwell)

 

ONORE A SADDAM

Da Roma veltronizzata e, dunque, burinizzata, cafonizzata,, glamourizzata, fuffizzata, vippizzata, sionizzata, clintonizzata, inciuciata, paralizzata, inquinata, disastrata, vernacolizzata, vaticanizzata, mafizzata, massonizzata, vaticanizzata... da una Roma in cui il candidato sindaco scelto (insieme a Opus Dei) dai radiovernacolari antagonisti cum disobbedienti, ha intitolato la stazione della Capitale dello Stato democratico e laico al più integralista e antiprogressista dei papi, quello del banchiere furfante e P2 Marcinkus, quello del cardinale Pio Laghi, compare di merende dei carnefici argentini… dal palazzo del governo di “centrosinistra” (la destra col silenziatore) dove uno dei due capi più sanguinari del mondo, che emula le persecuzioni subite dalla sua gente duplicandole, intima al collega-figurante Prodi di dire che Israele deve essere Stato ebraico (razzista), che i palestinesi sono solo un problema umanitario e che di cinque milioni di profughi ci se ne impippa (e lui, a chiappe larghe, esegue)…    da uno Stato in cui Prodi sta a D'Alema com Bush sta a Cheney e tutti quattro stanno al giusto e al vero come Adriano Sofri sta a Gasparazzo (mitico operaio rivoluzionario di Lotta Continua)... da una maggioranza di centro-sinistra-sinistra radicale che inciucia con i delinquenti mafiosi già sgovernanti, che tenta di mandare impuniti gli amministratori ladri, che manda a morire i suoi cittadini perchè per i propri mandanti rubino le risorse e la vita a  stranieri innocenti, che intossica tutta la popolazione sovvenzionando, con i soldi che paghiamo per energie pulite, i criminali dei rifiuti  e degli inceneritori cancerogeni...alla Terra tra i Due Fiumi, a Hammurabi, Nabuccodonosor, Avicenna, Averroé, Harun Al Rashid...Saddam. Dal fondo toccato e oltre il quale stiamo scavando, alla luce di un esempio di città del sole possibile.

 

"I nemici del nostro paese, gli invasori e i persiani, hanno scoperto che la vostra unità è una barriera tra voi e coloro che oggi vi governano. Perciò essi hanno cercato di inserire l'infame cuneo tra voi. Restate uniti. Avete conosciuto il vostro fratello e leader come conoscete la vostra stessa famiglia. Sapete che non si è mai piegato ai despoti e, in sintonia con il desiderio di coloro che lo amavano, è rimasto una spada e una bandiera. Grande popolo, ti chiedo di preservare i valori che ti permisero di degnamente operare nella tua fede e di restare un faro di civiltà. La tua unità ti preserva dalla servitù.

Ti chiedo di non odiare, perchè l'odio non ti permette di essere equo, ti acceca e chiude tutte le porte al pensiero, impedisce il ragionamento equilibrato e la scelta giusta. Ti chiedo anche di non odiare i popoli dei paesi che ci hanno aggredito e di vedere la differenza tra il popolo e coloro che prendono le decisioni, Chiunque si penta, in Iraq o fuori, deve essere perdonato. Dovete sapere che tra gli aggressori v'è gente che sostiene la vostra lotta contro l'invasore, alcuni si offrirono volontari alla difesa legale dei prigionieri, compreso Saddam Hussein.

Coraggiosi e sacri Iracheni dell'eroica Resistenza, figli di una sola nazione, dirigete le vostre ostilità contro l'invasore. Non permettete che vi dividano. Popolo fedele, ti dico addio... Viva la nostra nazione, viva il nostro grande popolo combattente, viva l'Iraq, viva l'Iraq, Viva la Palestina, viva la guerra di liberazione e i suoi combattenti.

Saddam Hussein, Presidente e comandante in capo delle Forze Armate di Liberazione.

 

Così, dopo la condanna a morte per impiccagione, colui che, profetico, nel 1991 dichiarò l'inizio della "Madre di tutte le battaglie". Dopo le dichiarazioni di vittoria di due presidenti, con parate a New York e celebrazioni en travesti sulla portaerei, la madre di tutte le battaglie ruggisce più che mai. Chi era che ridacchiava quando Saddam, nel 1991, parlò della “madre di tutte le battaglie”? E chi parlava del “pagliaccio iracheno” quando il ministro dell’informazione di Baghdad, con i carri armati dei barbari alle porte, annunciava che Baghdad “sarà la tomba degli americani”? La Resistenza, guidata dagli uomini di Saddam, ne uccide ora cinque al giorno (versione ufficiale che occulta i morti senza nome, quelli senza cittadinanza Usa, come gli immigrati clandestini dal Messico e quelli tra i 100mila mercenari privati) e controlla trequarti del paese. E sono passati più anni di quanti ce ne vollero per liquidare Hitler e la Germania. Ma Saddam non era Hitler. Hitler è quell'altro, quello che sta a Cheney come Prodi sta a D'Alema e a Montezemolo.

 

Fu vera gloria? Ai posteri / l’ardua sentenza: nui / chiniam la fronte al Massimo / Fattor, che volle in lui / del creator suo spirito / più vasta orma stampar…Tu dalle stanche ceneri /

sperdi ogni ria parola: / il dio che atterra e suscita, / che affanna e che consola / sulla deserta coltrice / accanto a lui posò.

(Alessandro Manzoni)

 

Ho visto in Tv l’abbagliante Apollo di Vejo, quello etrusco del VI secolo prima della catastrofe, quello che in veste merlata incede a testa alta e col sorriso, come se fosse portato dal vento, chissà se verso una sposa, verso il suo popolo, o verso la morte. I grandi ci vanno così. E così, come ce lo hanno materializzato le sue parole di amore e di lotta e il suo comportamento di combattente indomito, ci va Saddam Hussein. Avete visto Saddam nei rari flash tv che filtravano dal verminaio occupazional-collaborazionista. Un Saddam segregato, aggredito, torturato, con gli avvocati e i testimoni a difesa che gli venivano assassinati uno per uno. Un Saddam che ha esploso in faccia ai suoi boia, ai boia del mondo, l’invincibile forza del martire incorrotto, vessillo nei secoli per chi resiste e manda avanti questa baracca sfondata chiamata Pianeta Terra. Vi auguro che abbia fatto germogliare un dubbio nelle vostre granitiche certezze sul "boia di Baghdad". L'Apollo di Vejo è certamente un dio. Ed è forse vero che dio ha creato l'uomo “a propria immagine e somiglianza” (lo sapete dalla bibbia che, però, ha scopiazzato da tutti). E l'uomo che oggi mi pare più somigliante a quanto gli dei si erano proposti impastando argilla è proprio Saddam. Retorica? Ma pensate a quella dei diffamatori, quelli dei “dittatore sanguinario”, del “tiranno criminale”, del caldaroliano “lapidatore di donne”, il “massacratore del proprio popolo”. Pensate alla retorica vigliacca e complice dello stivale sinistro dell’imperialismo, l’immondo movimento della pace che invoca un’ONU manutengolo di assassini seriali, insieme ai partiti moralmente putrescenti che, galoppando alla Bertinotti o strisciando (vero “sinistra del PRC?), vendono, per trenta denari, all’imperialismo una copertura di melma. E pensate, dopo aver visto l'Apollo, ad altre facce: il senile farfugliatore mortadelliano agli ordini di Olmert, il velista sottocosta con i baffini del disprezzo cosmico, mozzo dell'Opus Dei e capomandamento della Nato, Fassino, Rutelli, Berlusconi, Bossi, Biondi, Merkel, Blair, Bush. Veltroni, il sempre più vespizzato e avariato Bertinotti. Quale dio ha mai creato costoro? Non certo l’Apollo di Vejo.  Semmai sono scaturiti dal pennello allucinato di  Hyeronimus Bosch... Ho la netta sensazione che una delle angosce più forti da me sofferte in una vita intrecciata di politica, professione e tutto il resto, sia da decenni quella per la mostruosamente ingiusta e bugiarda diffamazione del presidente iracheno da parte di chi la dovrebbe sapere più lunga. Subito seguita da quella, appena meno virulenta, di Slobo, o di Fidel. Una satanizzazione  che possiamo dare per scontata tra coloro che a muso duro ci combattono e dai quali, a partire da Costantino e dal primo papa, nulla ci aspettiamo. Una diffamazione tanto più esasperante poichè prodotto di scarto dell'intelligenza politico-professionale di tanta sinistra, quasi tutta. E i sinistri che non ci cadono, magari non  fanno i corifei della balle galattiche su Saddam, ma, audacemente, tacciono. Come tace fragorosamente il papa, pronto a sciogliersi in sdegno e pianti su embrioni da mezz’etto e agonizzanti liberati, appena levati gli artigli dal corpo di Piergiorgio Welby,. Papa che pure farfuglia banalità di pace e amore (ma sottende nequizie, d'intesa con un'intera classe, sempre quella, di monatti).       

 

Chi controlla il passato controlla il futuro. Chi controlla il presente controlla il passato

(Gorge Orwell)

 

I BOIA E GLI "SCIACALLI"

Che fossimo preda di orridi serialkiller psicopatici, USraeliani con tutti i loro sicofanti europei e i loro ascari nel Terzo Mondo, non c'era bisogno della barbara esecuzione di Saddam a dimostrarcelo. Più oscena è la turpitudine compunta e finta addolorata di coloro che, nella politica e nei media, ottusi e servi più che mai, deprecano la condanna a morte di questo grande eroe della resistenza umana. Eroe al cui martirio hanno incessantemente lavorato confermando - e rilanciando tra masse disinformate del fatto che Saddam lottava per tutti noi - l'immane costruzione di menzogne fabbricata da chi, correttamente, aveva temuto - e sempre più dovrà temere - nella figura del grande statista e leader della rinascita araba la nemesi dell'imperialismo capitalista e colonialista, l'esposizione della fetida natura della "civiltà occidentale". Da farabutti bulimici di arricchimenti che s'inventano un terrorismo islamico per mimetizzare i propri crimini razzisti e genocidi, dalle Torri Gemelle ai mattatoi in giro per il mondo, dalla tortura legalizzata allo sterminio sociale, dal nichilismo culturale alla devastazione planetaria, da diritti umani e democratici disintegrati da truffe elettorali ormai generalizzate, al sequestro del pensiero e della parola dell'intero genere umano, nulla di diverso c'era da aspettarsi. Quello che sconvolge, indigna oltre ogni misura tollerabile, è la complicità con questi abominii di sinistre fetecchie alle quali i popoli e le classi della speranza e della lotta avevano affidato la verità, la liberazione, la vita.

 

Saddam è stato condannato per la strage di 148 iracheni colpevoli di aver attentato alla vita del capo dello Stato. Strage? Almeno un quinto dei presunti uccisi è tuttora in vita. Molti altri sono deceduti di morte naturale negli anni che vanno dal 1982 ad oggi. E nessuno s'è preso la briga di andare a vedere le carte. Carte che raccontano invece come quegli attentatori, mercenari prezzolati dal nemico quando l'Iraq si difendeva dall'aggressione persiana finanziata da Israele e Usa, fossero stati processati, con pieni diritti alla difesa, per ben tre anni?  Non ricordate i finanziamenti ai terroristi contras scaturiti dalla vendita di armi israeliane a Khomeini? Non avete visto negli archivi di Washington gli annuali stanziamenti a Tehran da parte del Congresso? Avete visto una sola arma Usa in mano alle truppe irachene nelle immagini delle due guerre del Golfo? Vi siete scordati le provocazioni armate di Khomeini nell '80, la modifica unilaterale delle frontiere concordate, l’infiltrazione di migliaia di provocatori tra gli sciti, la sua minaccia di chiudere all'Iraq i vitali Stretti di Hormuz proprio quando Israele e l'Occidente erano in difficoltà per la creazione voluta da Saddam di un Fronte del Rifiuto arabo contro l'inciucio di Camp David del rinnegato Sadat con il terrorista Begin? Non vi dice niente il fatto che, oggi, i persiani coronano il loro sogno di frantumare e divorare l'Iraq in perfetta cogestione con gli invasori occidentali? E continuate a ripetere, all'unisono con gli stragisti della loro gente dell'11 settembre, di Londra, Madrid e di tutto intero il terrorismo "islamico", che a Halabja Saddam gassò i curdi, la propria gente, quando tutti i servizi segreti del mondo, Cia in testa, vi ripetono che fu il cianuro iraniano a piovere su quei disgraziati, cianuro che l'Iraq non ha mai possseduto e chissà chi l 'aveva fornito a Khomeini. Quel Khomeini, promotore di un oscurantismo che avrebbe fornito alle elite cannibalesche occidentali il nemico che gli avrebbe permesso di far rinascere un colonialismo sconfitto dai popoli. Quel Khomeini, ospitato e nutrito in Europa, giunto a Tehran su un aereo statunitense perchè impedisse che al fantoccio Shah succedessero le forze politiche comuniste e patriottiche che lo avevano abbattuto?  

 

C’è chi nasconde i fatti perché non li conosce, è ignorante, impreparato, sciatto e non ha voglia di studiare, di informarsi…c’è chi nasconde i fatti perché non vuole rogne e tira a campare barcamenandosi… c’è chi nasconde i fatti perché altrimenti non lo invitano più in certi salotti…c’è chi nasconde i fatti perché contraddicono la linea dell’editore…c’è chi nasconde i fatti perché quelli che li raccontano se la passano male…c’è chi nasconde i fatti anche a se stesso perché ha paura di dover cambiare opinione…c’è chi nasconde i fatti perché altrimenti poi tolgono la pubblicità al giornale… c’è chi nasconde i fatti perché altrimenti è più difficile voltare gabbana quando gira il vento… c’è chi nasconde i fatti perché il coraggio uno non se  lo può dare…

(Marco Travaglio, che però farebbe bene ad applicare il suo bisturi anche agli assassini seriali di Tel Aviv)

 

Dagli abissi, a volte pozzi neri, della loro ignoranza, malafede, servilismo, ributtante opportunismo, del loro gongolante brunovespismo, questi cialtroni, spurgo di una tradizione conformista e ipocrita inculcatoci da due millenni di imposture e violenze vaticane, arricciano il naso sull'esecuzione mentre portano sulle spalle la piena responsabilità di averla agevolata, quella e tutte quelle che stanno eliminando dalla faccia della terra popoli di troppo, grazie a una collusione fatta di scimmiottamenti delle demonizzazioni e, peggio, di coltellate alla schiena di chi non assume, a Bush piacendo, il suicidio della specie sotto forma di "non violenza".

 

Cari Tommaso di Francesco, signora Mariuccia Ciotta e solitamente bravo Danilo Zolo del "manifesto", siete i capifila là dove casca l’asino (da Sofri al “terrorismo”, dalla Jugoslavia all’11 settembre, irresponsabilmente e vilmente avvallato nella megafrode dei delinquenti di Washington) dell’armata arlecchina di grilliparlanti cerchiobottisti e dunque correi, che si stanno mangiando quanto resta della residua credibilità (della sciagurata connivenza  del nonviolento, ma filoisraeliano "Liberazione" non mette neanche più conto parlare)

Perdete lettori? Forse perchè qualcuno trova ormai insopportabile la vostra compunzione pietista e legalitaria sulle nefandezze di una pagliacciata processuale senza prove, con testimoni d'accusa mascherati, con testimoni e avvocati di difesa trucidati, con il filo diretto tra i microbi giuridici in aula e i massacratori Usa del loro popolo, che dettano gli abusi dal santuario della Zona Verde. Pensate di esservi fatti politicamente corretti quando avete denunciato l’ovvio? Fa schifo quando sull'altro piatto della vostra bilancia, fintobuonista e sconciamente ipocrita, scaricate i macigni delle falsità condivise con i padroni, a partire da quell'"alleato degli americani" che avete la compulsione a ripetere, senza mai esservi documentati. Così la foto di Rumsfeld che, nel 1982, stringe la mano a Saddam, diventa la prova provata della turpe intesa tra il “finto nazionalista arabo antimperialista” e la criminalità organizzata di Washington. Una foto! T.d.F ne deduce che "quel regime non avrebbe mai prosperato senza il sostegno degli Stati Uniti che all'epoca dei crimini contestati a Saddam, l'uccisione di 140 sciti (148, De Francesco, 148!) a Dujail e il massacro di migliaia di curdi nella risposta alla rivolta dei curdi israelo-amerikani, erano i primi alleati del rais di Baghdad”.

L'ottimo giornalista del "manifesto", quello con l'altra coazione a ripetere infamie quando gracchia di "contropulizie etniche in Kosovo, avallando ancora, con tutta l'abbagliante evidenza contro, la menzogna della pulizia etnica fatta prima dai serbi, gareggia addirittura con Bush e Colin Powell (quello del 5 febbraio 2003 all'ONU ridicolizzato dal mondo), in protervia di inganni: Rumsfeld, mentre stringeva la mano al rais, dall'altra faceva arrivare al regime "armi letali di distruzione di massa, gas e armi chimiche, armi e sistemi logistici". E' stata l'attenta professionalità di questo canarino da salotto mediatico a trascurare i documenti che rivelano come Rumsfeld fosse andato per chiedere a Saddam di riaprire l'oleodotto Kirkuk-Haifa, onde alimentare la pandemia bellicista israeliana, ottenendo in cambio una linea Usa meno squilibrata a favore dell'ayatollah persiano? E che dimostrano che Saddam respinse la richiesta e mandò a casa il futuro mostro della tortura con le pive nel sacco? E poi vai con il "tiranno", con le "tante malefatte, "responsabilità criminale". Finisce, T.d.F. con l'implicito lamento che Bush padre non abbia, lui, fatto fuori Saddam, tradendo gli sciti nel frattempo insorti (contro l’unita nazionale e al servizio dell’espansionismo di Khomeini, ma T.d.F. non lo dice), e corona l'inqualificabile libello (Il manifesto, 28/12/06) con l'accreditamento dell'autenticità endogena di Al Qaida, che "esulterebbe della fine del nemico giurato", riconoscimento ormai di prammatica, nelle tetre pagine del "quotidiano comunista", della balla spaziale di coloro che, a Langley, Al Qaida l’hanno inventata, e la gestiscono a pro della futura dittatura USraeliana mondiale. Sì, De Francesco, Al Qaida ha esultato. Mentre con Bush e Blair si sorbiva il té servitogli dal paggetto baffuto che cazza le rande.

Nulla di diverso si può dire dell'altro, il solitamente rispettabile Danilo Zolo: "Gli Stati Uniti hanno sostenuto sul piano economico, militare e diplomatico quell'aggressione (all'Iran)... Essi si sono fatti complici di Saddam Hussein non denunciando alcuni crimini gravissimi commessi dalle truppe irachene: gli attacchi compiuti con l'uso di armi chimiche contro la popolazione iraniana". Davvero stupefacente. Eppure un certo nome questo Zolo ce l 'ha. Tanto nome da non aver bisogno di andare a documentarsi, magari sui comunicati di guerra degli stessi iraniani, oppure di tutte le cancellerie interessate, con la ripetuta denuncia dei gas iraniani contro gli iracheni! Non saprà, come il 99% dei nostri “informatori” l’inglese, ma la traduzione dell’analisi sul New York Times del 31/1/04, che prova la paternità iraniana dei gas sui curdi, è da anni disponibile in rete. E poi, davvero curioso questo “alleato degli Usa”, che agli Usa strappa il petrolio e se lo tiene fino all'ultimo giorno, che sostiene i palestinesi con armi, uomini e fondi dal primo giorno della rivoluzione fino al 9 aprile, giorno dell'irruzione dei vandali a Baghdad, che manda in vacca la prima tentata normalizzazione del Medio Oriente con il Fronte del Rifiuto arabo, che costruisce a Baghdad il polo di raccolta, coordinamento e mobilitazione di tutte le forze progressiste, antimperialiste e antisioniste del mondo, non meno di Cuba. Singolare alleato del loro padrino Usa cui gli israeliani polverizzano l'unica centrale nucleare civile, proprio mentre Rumsfeld sta per partire per Baghdad. Lasciamo perdere, ricordiamoci le epigrafi di Travaglio sul giornalismo italiano.. Questa è gente che ha subito smesso di chiamare mercenari quei quattro “nostri ragazzi”, professionisti del killeraggio per soldi, finiti in mano ai patrioti iracheni, che sta zitta davanti alle cerimone e ai monumenti ai "nostri ragazzi" di Nassiriya. Quelli che, sghignazzando, mitragliavano e uccidevano centinaia di civili iracheni, fin nelle case, fin nelle ambulanze, urlando, ebbri dell'educazione fornitagli, "annichilito!"  "Operatori dell'informazione"! Gli stessi daI quali invano ci aspettavamo urla di furore per la verità e la giustizia al tempo delle aberrazioni processuali di Carla del Ponte all'Aja e del processo dei macellai istruttori di pupazzi a Baghdad.

 

I CRIMINI DI SADDAM

Ho amato gli iracheni a ragion veduta. Ho rispettato e ammirato Saddam Hussein e i suoi compagni per aver visto quello che ho visto in trent'anni di frequentazioni del paese e del popolo, un popolo felice, generoso e fiero come lo avevo potuto conoscere a Cuba, forse oggi in Venezuela. Quei popoli che dal nulla arrivano alla dignità, alla storia. E mi sarei sciacquato la bocca se mi fosse scappata la parola ignorante, stolta, eurocentrica, saccente, di "dittatore", quando sapevo benissimo che quella forma di governo era l'unica, nel contesto dell’assedio costante dei “cani da guerra” , che poteva assicurare benessere e sovranità. Dittatore da che punto di vista? Nella valutazione di chi? Di noialtri che sguazziamo passivi tra liste elettorali blindate, dettate dai capibastone partitici a loro volta obbedienti ai padrini confindustriali, clericali, mafiosi e massonici, tra campagne elettorali sostenibili solo da chi ha dotazioni o sovvenzioni milionarie, tra brogli modellati dall'esempio del "comander in chief" idiota e assassino, tra diritti civili che annullano il conflitto tra sfruttatori e sfruttati nei depistanti deliri di genere e transgenere, tra diritti umani che non vedono masse di incazzati correre a staccare la spina a chi è già mille volte morto di dolore, tra pacifisti che menaguerrescamente si seccano dei frastuoni delle Frecce Tricolori, ma "riducono il danno" avallando spedizioni "antiterroristiche" di sterminio di popoli, dal Libano all'Afghanistan, alla Somalia e al Darfur, tra antimperialisti ernestini che, pateticamente mugugnando, votano per la rivincita colonialista voluta da chi nel grande '900 se l'era presa nel culo?  Ma che titoli abbiamo? Che cosa ne sappiamo dei rapporti sociali, culturali, storici di popolazioni che,  per sopravvivere, devono colmare in brevissimo tempo il ritardo nei confronti di chi li vuole fare fuori e che, soprattutto, hanno potuto per millenni, sotto tirannie assolute, romane, mongole, bizantine, britanniche, coltivare un minimo di identità e autonomia grazie a un ordine tribale che assegnava, in mancanza di altre possibilità di autodeterminazione, al più valido, al più autorevole, al più stimato dei membri, la potestà di gestire la società negli spazi ignorati dall’impero?

 

E allora io ho gli elementi per sapere per quali crimini è stato processato e assassinato Saddam. Eccoli. Segnateli, Tommaso De Francesco. O sennò copiali dai libri di storia e dai rapporti ONU. Per aver cacciato con due rivoluzioni il dominio britannico, primo gassatore degli iracheni con Churchill nel 1922; per aver costruito una nazione in un paese  lasciato dagli inglesi senza ospedali, senza scuole, senza nome;  per aver opposto ai vassalli feudali arabi dei dintorni un modello sociale basato sull'equa distribuzione della ricchezza, sull'eguaglianza, sulla dignità senza poveri e senza miliardari; per aver nazionalizzato il petrolio, linfa vitale dell suprematismo giudaico-cristiano bianco; per aver sostituito l'euro al dollaro; per aver resistito all'obnubilazione della tirannia religiosa persiana; per aver alfabetizzato un popolo che, sotto gli inglesi, era felice di vivere senza leggere e scrivere; per aver fatto diventare qualsiasi ragazzo lo volesse uno dei migliori medici, ingegneri, chimici, letterati, agricoltori del Terzo Mondo; per aver reso obbligatoria e gratuita l'istruzione fino alla maturità e gratuita fino all'ultimo giorno di università, tanto che l’ONU proclamò quello iracheno il miglior sistema educativo dei paesi in via di sviluppo; per aver garantito una sanità gratuita di altissimo livello a 25 milioni di iracheni e a tutti gli altri che fossero venuti a goderne; per aver dato alle donne una legge di parità e un ruolo raggiunto nemmeno nei paesi cosiddetti sviluppati; per aver concesso ai curdi , primo tra tutti i paesi che li albergano, l'autonomia, l'autogoverno, una lingua ufficiale che tutti gli iracheni dovevano studiare, alla faccia dei capiclan narcotrafficanti che, istigati e pagati da Israele e gli Usa, come in Kosovo massacravano i rappresentanti dello Stato e gli arabi insediati dalle loro parti (la repressione della rivolta di Anfal, per la quale Saddam veniva pure processato nella propaganda occidentale, avrebbe causato 180.000 morti: non si sono mai trovati); per aver governato in coalizione con il Partito Comunista fino a quando questo non si è schierato con Khomeini, su ordine di Brezhnev, come oggi è schierato con i fantocci su ordine di Bush; per aver utilizzato la ricchezza dell'Iraq industrializzando il paese, lavorando per l'indipendenza alimentare attraverso la riforma e l'industrializzazione agraria; per aver distribuito gratuitamente a tutti i contadini, oltre ai macchinari, frigoriferi e televisori, onde imporgli dittatorialmente di bere acqua potabile e fresca e impedirgli di dormire presto la sera; per non aver intascato una lira dei progetti governativi, per aver proibito ai suoi funzionari di avere conti all’estero; per aver spedito medici, insegnanti e ingegneri iracheni nei paesi arabi per assisterli nello sviluppo e per avere difeso questi paesi dall’espansionismo persiano con il prezzo di centinaia di migliaia di caduti; per aver respinto la richiesta degli Usa (visita di Rumsfeld) di riattivare l’oleodotto Iraq-Israele, di riconoscere lo Stato ebraico e di permettere l’installazione di basi Usa in Iraq; per aver costruito in pochissimi decenni un paese sovrano, equo, benestante, con piena occupazione e servizi sociali senza paragone, polo di riferimento per tutto il fronte progressista e antimperialista arabo e internazionale; per non aver mai rinunciato al destino storico dell’unità araba; per aver appoggiato fino al 9 aprile 2003 la resistenza palestinese attraverso il sostegno finanziario alle famiglie dei martiri; per aver resistito senza mai piegarsi a due aggressioni e a un embargo eurostatunitense genocidi, costato due milioni di morti, di cui 500.000 bambini; per aver dato al mondo, durante le fasi della detenzione sotto tortura e del processo, un esempio di coraggio, di incredibile forza morale, di dignità; per aver fornito la motivazione, i mezzi, la forza ideologica a una resistenza che sta sconfiggendo la più potente e feroce coalizione di criminali di guerra di ogni tempo; per essere stato e continuare a essere il simbolo di un fronte mondiale di popoli e individui in lotta contro le barbarie.

Saddam è morto, ma, davvero, vive e lotta con noi. Il suo retaggio gli sopravviverà e trionferà, alla faccia dei planeticidi di ogni risma.

 

UNA MAGGIORANZA SCITA?

Vale la pena riandare alle giustificazioni avanzate per la liquidazione dell’Iraq e del suo governo. Le patacche – armi d distruzione di massa, Al Qaida, democrazia da portare – le conosciamo (questi vorrebbero portare la democrazia anche agli Aztechi e Carlo Magno). Ma non vi ha anche convinto fino alla totale passività l’affermazione che gli sciti, discriminati e perseguitati dal governo di Saddam, fossero la grande maggioranza in Iraq? Non avete forse imboccato alla stessa maniera con cui vi hanno fatto trangugiare la bubbola della maggioranza del 90% di albanesi in Kosovo (erano, prima dell’unica pulizia etnica, non più di 900.000 su 1.800.000, per metà immigrati dall’Albania sospinti da un lungimirante Henver Hoxa)? E in difesa delle maggioranze oppresse e escluse si deve pur intervenire, no? Salvo per quella palestinese (77% nel 1948). Ecco, la storia della “maggioranza scita”, da restaurare nella sua posizione di diritto, era forse la scusa più universalmente accettata, anche a sinistra. Solo che era falsa. Ecco i dati – visto che a priori non si deve credere ai censimenti sotto Saddam - delle elezioni parlamentari e della ricerca londinese  dell’Al Quds Press Research Center. Demografia: Arabi, 82-84%, curdi, turcomanni e altri 16-18%. Confessioni musulmane: sunniti 60-62%, di cui arabi 42-44%, di cui curdi e turcomanni 16-18%; sciti 38-40%, di cui curdi e turcomanni 2-4%. Elezioni del 31/1/05: aventi diritto al voto 15.450.000, votanti 8.456.266. Iracheni, quasi tutti sunniti, che hanno boicottato il voto 6,693,734 = 46%. Secondo l’Autorità Provvisoria  votarono il 95% di sciti (minacciati di Fatwa da Al Sistanti se non avessero votato) e il 98% dei curdi. Voto per il blocco scita 26,3%. Partito Comunista collaborazionista 69.920 voti, sunniti collaborazionisti di Al Pachachi 23.302, blocco curdo 14%. Nelle successive elezioni parlamentari del 15/12/05 il blocco scita ha registrato il 32,2 %. Cifre, inoltre, da porsi sullo sfondo di lampanti brogli constatati universalmente, con camion pieni di schede “votate” in arrivo dall’Iran. Ha rifiutato il voto il 57,8%. I calcoli che originano da questi dati danno una popolazione di sunniti al 60-62% (arabi, curdi e turcomanni), di sciti al 38-40%. Cade così un altro pilastro della leggenda democraticista che ha visto “il manifesto” e co. affiancati agli aggressori. Se troverò il tempo, vi darò poi i dati che comprovano la presenza paritaria delle minoranze nell’amministrazione Saddam, dal vertice in giù, compresi il vicepresidente, il presidente dell’Assemblea Nazionale e i membri del Comando del Consiglio della Rivoluzione.

 

LE SINISTRE VERNACOLARI, ARLECCHINE E CALUNNIATRICI

 A novembre l’agenzia e associazione Infopal è riuscita ad organizzare, nientemeno che in una sala del Senato, un’ affollata assemblea sulla Palestina alla quale sono intervenuti i più qualificati sostenitori della causa palestinese e nella quale sono state denunciate con forza documentale gli aspetti orripilanti della colonizzazione e del genocidio operati da Israele contro il popolo palestinese e, dai ”cani da guerra” occidentali, contro quello iracheno. Una giornata memorabile. Pochi giorni dopo, in un locale privato di notevole prestigio e costo, viene allestita un’altra giornata per la Palestina.

Gli organizzatori sono quelli del corteo del 18 novembre, i vernacolari di Radio Città Aperta e della Rete dei Comunisti, che all’epoca delle elezioni amministrative di primavera avevano tentato di convogliare l’autentica sinistra antagonista, Forum Palestina compreso, in una lista per Veltroni sindaco. Già quel Veltroni. Quello dell’indissolubile complicità con Israele e con la lobby filoisraeliana in Italia, quello dello sgoverno senza precedenti della capitale, quello delle manifestazioni vippiste e fuffarole e del degrado dei servizi e delle periferie, quello del Partito Democratico amerikano, quello del “non sono mai stato comunista poiché il comunismo è incompatibile con la libertà”, quello della stazione Termini rinominata al papa della destabilizzazione e reazione  (sul modello di quell’altro campione comunista, Nichi Vendola, governatore della Puglia, gay adoratore di un Vaticano ammazzagay, privatizzatore delle acque e liquidatore di chi le voleva pubbliche e titolatore dell’aeroporto di Bari allo stesso papa da crociata). Il bilancio del loro exploit elettorale al servizio del sindaco che ne finanzia la radio?  Lo 0,6% del voto romano. Risultato di una perspicace intelligenza politica che, successivamente, è stata ribadita nel compitino di ovvietà superficiali sul Medio Oriente, redatto da un loro luminare “teorico”, mettendo insieme un po’ di ritagli di giornale. Forum per la Palestina e per Veltroni? Un ossimoro che non se n’è mai visto uno di più paradossali. Un ossimoro che spiega l’astuta presa di distanza – successiva agli anatemi dei sionisti e succubi dei sionisti – dagli ottimi compagni che ottimamente hanno bruciato i fantocci di chi va in giro distruggendo il mondo e le sue vite. Si sono ben guardati, i palestinoveltroniani, dal far volare una sola parola – al di là del rituale appoggio “ai popoli resistenti”-   sulla Resistenza irachena, in coerenza con quella prudente ambiguità che ha lasciato praterie politiche alle più improprie e spurie delle associazioni bonsai italiane. Non solo. Neanche l’argomento dei quattrocentomila palestinesi dannati della Terra nei campi del Libano, o dei cinque milioni seminati nel mondo, è stato sfiorato e, tanto meno, quello dei 40.000 palestinesi profughi dal ‘48 in Iraq, prossimi all’estinzione e alla mercè delle squadracce iraniano-scite del doppiogiochista Moqtada al Sadr, collaborazionista nel governo mercenario, stragista di iracheni resistenti. Ne sono rimasti 15.000 nel bel quartiere per loro costruito da Saddam, superstiti di una comunità espropriata, sterminata o cacciata dagli sgherri di Moqtada e dei  suoi compari

“iraniani”, dagli squadroni della morte di “Dawa” e “Sciri” al “premier” Al Maliki. Gli altri sopravvissuti, o sono riusciti a riparare in paesi vicini, o sono accampati senza tende, viveri, medicinali, nelle intemperie invernali, nella terra di nessuno tra Iraq e Siria. Un’emergenza pari a quella determinata a Gaza dalla coppia sionista-nazista Olmert e Lieberman. Vicenda che non competerebbe al Forum Palestina? Ma i vernacolari, che riflettono a sinistra tutte le qualità di una piccola borghesia burina, tanto incolta quanto autoreferenziale, che ci infligge quella “classe politica destrosinistra” in lotta di classe contro tutti noi di cui parla Gianni Vattimo, non solo tacciono certe cose urticanti, altre le dicono, chiare e sporche.

 

INFOPAL E LINGUE BIFORCUTE

Scendiamo nella cronaca. Quella misera delle nostre sinistre in disarmo.. C’è  stata, nello strascico dei due eventi per la Palestina una sconcertante polemica. Infopal, alla quale rendiamo merito per essere la più informata e puntuale diffonditrice di notizie nascoste sul colonialismo israeliano, ha denunciato di essere stata accusata da ambienti vernacolari di essere finanziata da Hamas. Identificandosi tali ambienti con questa esecrazione, con coloro che a una forza resistente preferiscono i quisling corrotti e collaborazionisti di Fatah, protetti da milizie addestrate e finanziate dagli assassini del loro popolo, Sion e Usa. 

Respinta l’accusa, i compagni di Infopal ne hanno sottolineato l’assurdità assoluta. Potete immaginarvi Hamas, cui la civiltà occidentale, europea e italiana compresa, nega la possibilità di governare da maggioranza democraticamente – questa sì – eletta, affamando i palestinesi, cui i ladroni di Stato israeliani rapinano i fondi dalle banche e dalle tasche dello stesso Primo Ministro, che non ha neanche un soldo per pagare dipendenti, medici, ospedali, scuole, cibo, infrastrutture vitali distrutte da Israele, potete immaginarvi che vada a finanziare in giro per il mondo piccole agenzie di notizie e associazioni tenute insieme dal concorso di volontari a costo di pesanti sacrifici?  Il Forum Palestina, chiamato in causa dai diffamati, ha sdegnosamente e perentoriamente smentito di aver detto quelle cose. Vorremmo tanto potergli credere! Ma in occasione dell’iniziativa del Forum, il 6 dicembre, davanti al Centro Congressi di Via Napoli in Roma, il sottoscritto accompagnato da testimoni si è sentito dire da esponenti del Forum: “Infopal è la voce di Hamas”. E poi: “Infopal è finanziata da Hamas”. Ci vengano ora a smentire. Devo fare i nomi?. Ma fosse anche per assurdo vera l’affermazione, quella denuncia avrebbe un carattere infame e delatorio, vista la qualifica data a Hamas di “organizzazione terrorista” da tutto l’establishment, veltroniano e non, di questo paese. Fosse anche vero, come è vero che la Terra è piatta e che Veltroni merita i voti dei filopalestinesi, sempre meglio finanziati da Hamas che da Veltroni.

 

CALUNNIA, CALUNNIA, QUALCOSA RESTERA’

Quando ti impegni, accanto agli integralisti di destra (Arturo Michelini), per soluzioni amerikanamente pornografiche al governo della capitale, e poi  marci e comizii per la Palestina, è ovvio che non sei molto attendibile e rimani in quattro gatti. Alla base di questa patologia, secondo recenti ricerche, sta un virus cui gli scienziati hanno dato il nome CVC-M. E’ il virus della diffamazione dei “concorrenti” come strumento di autopromozione. Costringe chi ne è colpito a urlare in tutte le direzioni “spie”, “pagati”, “venduti”, “questurini”, “pericolosi”, “squilibrati”. E’ infermità perniciosa, porta alla quarantena. E allora hai voglia ad allestire noiosi seminari di una compagnia di giro accademica avvitata su se stessa e autoperpetuantesi nella totale indifferenza della politica e della storia.

 

Avessimo avuto un Saddam. Certo, era un duro. Lo erano anche Robespierre e Lenin, Nasser e i Tupamaros, l’IRA e i partigiani italiani. Li hanno costretti ad esserlo.Lo era Arafat, fino a quando, a Beirut, non ha chiuso una rivoluzione, chinato il capo e messo la coda tra le gambe all’ombra dei cannoni atlantici e del terrorismo israeliano. I fanatici dei diritti individuali ricordino che i diritti collettivi sono fatti per tanti individui. La rivoluzione non è un pranzo di gala.

E noi oggi stiamo come d’autunno sugli alberi le foglie. O si fa una rivoluzione, o si muore.

Israele ha esultato all’impiccagione del suo più grande nemico, quello dell’ultima rivoluzione vittoriosa del Grande Secolo del ’17. Già solo per questo dovremmo piangerlo tutti. 

 

 

       

  

Fulvio Grimaldi   mercoledì 10 febbraio 2010 IRAN: UNA LEZIONE AGLI UTILI IDIOTI

Fulvio Grimaldi Iran, rivoluzione verde

Il caso dello sterminio eugenetico dei sefarditi  (2 settembre 2004) Fulvio Grimaldi

SLOBO VIVE LA SINISTRA ITALIANA RANTOLA di Fulvio Grimaldi