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SLOBO VIVE
LA SINISTRA ITALIANA RANTOLA di Fulvio Grimaldi
E tu onor
di pianti Ettore avrai ove fia sacro e lacrimato il sangue per la patria versato
e finchè il sole risplenderà sulle sciagure umane (Ugo Foscolo, I Sepolcri)
Nel post
precedente sono saltate alcune parti del mio intervento su Slobodan Milosevic,
recuperate da una cara compagna serba, Olga Daric, e che qui ripropongo
Venerdì 24
marzo 1999 iniziavano i bombardamenti su Belgrado, l'assalto finale alla
Jugoslavia, la distruzione del suo cuore pulsante serbo da parte del revanscismo
nazifascista e dell'imperialismo Usa. Quello fu l'ultimo giorno che io trascorsi
in RAI, al TG3. La nausea per il chiacchiericcio sull'"intervento umanitario"
della nostra corrispondente amerikkkana e slavofoba in Kosovo, Giovanna Botteri,
accolto dal plauso del direttore e di tutta la redazione, era diventata
insopportabile. Presi una telecamera, andai a Belgrado, girai la Serbia del
"dittatore" Milosevic, certo il più democratico dei governanti europei. Ne
nacquero i miei documentari "Il popolo invisibile" e "Serbi da morire", unica
informazione non "conforme", insieme a una puntata della trasmissione di Santoro
dal Ponte Branco. Piovevano le bombe degli "umanitari" su case, scuole,
ospedali, treni, ponti, monasteri, mentre in Kosovo, protetti dalla Nato e da
Giovanna Botteri, le bande assassine dell'UCK fascista-albanese di Hashim Thaci
(fidanzato di Madeleine Albright, oggi primo ministro del Narcostato)
conducevano l'unica vera pulizia etnica mai vista in Jugoslavia, dopo le stragi
nazifasciste 1940-1945 e fuori dalla Croazia del fascista Pavelic e dei suoi
successori moderni benedetti dal papa, da Berlino e da Pannella in mimetica.
Oggi la Serbia è in coma, gli altri finti statarelli usciti dall'assalto
colonialista USA-UE, con il sostanzioso aiuto sul campo dell'agente Cia e
addestratore terrorista Osama bin Laden, contano in Europa e nel mondo meno di
un pelo della barba di Tito. Il Kosovo, riconosciuto appena da un terzo degli
Stati del mondo, assolve alla funzione assegnatagli dagli occidentali: megabase
Usa a controllo dell'Est europeo, del traffico di droga dall'Afghanistan
occupato, di commercio di donne, bambini e organi. Complimenti a D'Alema per
aver collaborato alla fase propedeutica dell'annichilimento di Iraq,
Afghanistan, Pakistan e, via via, dell'intero mondo collocato nel mirino della
"guerra infinita".
Ho tra le mie
foto più preziose, sopra il televisore, una con Slobodan Milosevic. Siamo a casa
sua, la residenza di Stato del presidente della Jugoslavia, ormai “Piccola
Jugoslavia”, sulla collina di Dedinje, in vista del Danubio ed è il 27 marzo
2001. Fuori dalla villa, amici e militanti del Partito Socialista contengono una
piccola folla che sbraita contro colui che ormai è l’ex-presidente, destituito
più che da un voto manomesso fino a bruciarne le schede, dal pogrom di
un’organizzazione finto-nonviolenta e paramilitare, “Otpor”, finanziata ed
addestrata dalla Cia e dal brigante della speculazione finanziaria e del
narcotraffico George Soros. Tre giorni più tardi queste bande e i loro padrini
internazionali l’avranno vinta. Milosevic verrà arrestato e, qualche mese dopo,
consegnato per 30 milioni di dollari, trenta denari, agli sgherri di un
tribunale-farsa istituito all’Aja dal governo Usa con la firma del notaio Kofi
Annan ed affidato a fiduciari, rinnegati dell’ordine giudiziario, come le
“procuratrici” Louise Harbour e Carla Del Ponte. Lo venderà ai suoi mandanti il
capomafia e Primo Ministro Zoran Djindjic, colui che aveva consegnato ai
bombardieri della Jugoslavia le mappe con gli obiettivi da colpire: raffinerie,
industrie, ponti, ferrovie, ma soprattutto case, scuole, ospedali, gente: 10.000
vittime per 78 giorni di intervento umanitario contro una totalmente inventata
“pulizia etnica” in Kosovo. Con sulla torre di controllo, in primissima fila,
Massimo D’Alema (Non pago del bagno di sangue jugoslavo, rilancia ancora oggi:
“E’ giusto espandere la democrazia anche con la forza”). Guardo quella foto
mentre, sotto, lo schermo tv è percorso da immagini falso-vere di un'oscena
propaganda umanitaria e percosso dall’eloquio nevroticamente sincopato, di una
corifea di tutti gli “interventi umanitari”, Giovanna Botteri del Tg3. Una che
ricordiamo stracciarsi le vesti e annunciare macelli, possibilmente di bambini
sventrati e di turbe in stracci, che si trattasse della Jugoslavia, o dell’Iraq,
con pari dedizione saprofita. Segue un'altra stampella delle ragioni per l’
“intervento umanitario”, Ennio Remondino, che, classico gabbamondo mediatico da
tavolino delle tre carte, con supponenza elargisce e mescola “il despota
Milosevic”, “il presidente democratico Djindjic”, i cattivi bombardamenti Nato e
i cattivissimi nazionalisti serbi. Intanto mi premono sullo stomaco, forse un
po’ come quell’ultimo pasto avvelenato rifilato a Milosevic per stroncarne
l’esito vittorioso sugli avvoltoi del tribunale-postribolo, la parole tossiche,
passate e presenti, di altri eroi del cerchiobottismo, becchini della Jugoslavia
e della verità che, con piagnistei equamente distribuiti tra carnefici e
vittime, sono stati anche più efficienti nell’apparecchiare la sepoltura di un
nobile paese. Il dolore per la morte da assassinio di quest’ uomo, senza
retorica vera figura da tragedia greca, si mescola con rabbia, indignazione,
ripugnanza e ne viene quasi temperato. Non mi riferisco alla grande stampa della
borghesia, dall’Unità a Libero, dall'Espresso alla Stampa, da Ferrara a Mieli.
Fetecchie da “macellaio dei Balcani”, o ”Hitlerosevic”. Chissenefrega, quelle
sono le voci del padrone, fanno il loro mestiere di ruffiani.. La loro
dimensione è la menzogna strutturale, ontologica, in sintonia con il potere che
servono. Nella nostra guerra stanno con ogni evidenza dall’altra parte della
trincea. Non c’è scandalo. La collera e il disprezzo sono tutti per coloro che,
dicendosi a sinistra, per la pace e per gli oppressi, pretendono di elargirci
verità e che, facendo slittare sotto la commiserazione per le vittime (purchè
inermi e non-violente) i paradigmi dei carnefici, strategicamente questi
puntellano e agevolano.
Guardo la
foto e la memoria srotola il filo della storia di un avvicinamento a Slobo che
parte dal 24 marzo e termina pochi istanti dopo lo scatto di quell’immagine.
Dopo aver sbranato oltre metà della Jugoslavia, in parte anche grazie alla
collaborazione di “pacifisti” come Adriano Sofri, Alex Langer, Costruttori di
pace, settori cattolici, ongisti voraci o semplicemente fessi (tipo l'
International Consortium of Solidarity, poi riciclatosi in "Sbilanciamoci"),
fondata sull’assenso agli inganni della guerra psicologica, nella notte tra 23 e
24 marzo le classi dirigenti europee e nordamericana si apprestano alla
soluzione finale. La mattina del 24 marzo, a garanzia delle retrovie, insieme
alla Nato entra in guerra il Tg3, il canale “di sinistra”, cosiddetto Telekabul,
ma anche, a buon titolo, Telepapa (fin da quando un papa ultrareazionario e
guerresco aveva sobillato i neofascisti – ma cattolicissimi – croati contro la
federazione ancora ostinatamente socialista). La donna-cannone è Botteri, il
direttore del circo è Ennio Chiodi, democristosinistro. Ci si dice, in riunione
di redazione, da che parte stare, ci si accalora sul “dittatore”, su “pulizia
etnica”, “ondate di profughi” e dunque, appunto, sull’ “intervento
umanitario”.Tutti annuiscono, il tavolo della riunione pare un carillon.
Armiamoci e partite. Da quel giorno non ho più messo piede in RAI, al Tg3. Di
decente c’erano rimasti solo gli operatori e i montatori, anche perché, bravi
per conto loro, non devono il pane a nessuna ruffianeria. E pochi giorni dopo
partii, con la prima delegazione dalla parte degli aggrediti e tanto di
telecamera, per Belgrado, quella delle macerie, della morte, della fame, della
sfida-sfottò dei “target” sui ponti.
Si doveva
passare da Austria e Ungheria, farsi taglieggiare dai rispettivi doganieri,
scendere sotto le bombe per la Voyvodina a Novi Sad. Gli sgherri razzisti di
Tudjman, cari al papa, non permettevano il passaggio. Chi frequentava i serbi
era infetto per l’Occidente intero. Ci accompagna e assiste un piccolo partito
comunista. Attraversiamo l’inferno, la resistenza, la quinta colonna degli
aggressori (che la “dittatura” lasciava agire e ci aveva permesso di incontrare
apertamente in piena Belgrado), fino al geno-ecocidio programmato di Pancevo e
della Zastava. I serbi non si piegavano e non c’è momento più alto nella vicenda
europea dopo la liberazione partigiana – che tedeschi e statunitensi riuniti
intendevano vendicare – che quella, fortunosamente ripresa dai miei documentari,
delle legioni di uomini e di donne, veri combattenti con l’arma nucleare della
dignità, che sul Ponte Branco di Belgrado, sera dopo sera, facevano svettare
bandiere jugoslave, cartelli “target” sul cuore, canti di orgoglio,
incriminazione e resistenza, contro gli strumenti tonitruanti degli stragisti
Clinton, Schroeder e il chierichetto col botto D’Alema. A Novi Sad i ponti erano
stati sbriciolati, la raffineria s’inceneriva nell’uranio, la terra si scuoteva
per terremoti da bombardamenti. A Belgrado il cielo si apriva ai terminator con
la chimica della guerra meteorologica. Una volta, a Kragujevac tre missili ci
mancarono di 50 metri.
Mi è rimasta
impressa la temeraria calma del compagno di viaggio, Raniero La Valle. Una notte
scampammo alla sorte dei neonati a cui le bombe avevano spento le incubatrici,
fuggendo dall’albergo Intercontinental, subito dopo bucato da missili, e dai
pressi dell’ambasciata cinese in fiamme, con dentro tre morti, mentre D’Alema e
compari ammazzavano, nel nome della libertà di stampa, 16 giornalisti e tecnici
della televisione serba (mai annoverati tra le sue vittime dall’associazione
mercenaria Reporters Sans Frontieres). A Pancevo, la città della chimica e del
petrolio, D’Alema e sodali avevano fatto in modo che le nubi e i liquidi
tossici, sprigionati dai loro esercizi di sfoltimento dell’umanità, da aria,
terra e acque pervadessero, fino a corromperli, vita e futuro di generazioni. A
Kragujevac, la più grande industria dei Balcani era un cimitero uranizzato di
macerie e di storia operaia. Ma c’erano ancora, dopo i missili e nell’uranio,
gli scudi umani che avevano sfidato, inanellati attorno agli stabilimenti, la
foja assassina degli umanitari. Ci avrebbero messo appena un anno a rimettere in
piedi gran parte della fabbrica. Non solo quella.
Tornammo un
anno e mezzo dopo: due ponti di Novi Sad, dei tre disintegrati, erano risorti,
la Zastava era tornata a far correre due linee di montaggio. Nell’inedia e nel
gelo delle sanzioni, tra le macerie delle loro case (ma migliaia erano già state
ricostruite), con i corpi ancora caldi delle vittime sezionate dalle bombe a
grappolo a Nis e in tanti altri posti, con il sangue avvelenato dalla guerra
chimica, i serbi erano rivissuti per orgoglio e per vendetta. Nessuno pensava
alla resa. “Serbi da morire!” titolai il documentario. Sotto il controllo di un
presunto “dittatore”, alla faccia degli infiltrati, dei demonizzatori, di morte
e rovina, degli ammnistratori dell'opposizione di destra che le libere elezioni
del “despota” avevano installato nelle maggiori città del paese, nonostante il
sabotaggio al servizio del nemico di una stampa al 90% in mano all’opposizione
filo-imperialista, la Jugoslavia di Slobodan Milosevic aveva retto e si stava
riassettando i vestiti laceri. A scandalo di una sinistra italiana miseramente
subalterna, avevo potuto scrivere su un giornale serbo “Meglio serbi che servi”.
Quella “sinistra” preferiva fraternizzare con i sedicenti oppositori
“democratici” di Radio B-92, della televisione "Studio B" di Vuk Draskovic (poi
ministro agli ordini del sottopancia Nato Xavier Solana), entrambi del circuito
europeo Cia di “Radio Liberty”, entrambi foraggiati da George Soros. Preferiva
una cosiddetta "Alleanza civica" di rinnegati, assetata di libero mercato,
garantita da pretoriani Nato, chiamata “Zayedno”. Soprattutto, si era gemellata
con l’altra articolazione Cia, il mix di sottoproletari e fichi dei quartieri
alti chiamato “Otpor”, appena reduce da corsi di eversione tenutigli a Budapest
e a Sofia da generali Usa. Eversione “non-violenta” fino al rovesciamento del
governo legittimo, ma violentissima dopo, nell’occupazione delle istituzioni,
nell’epurazione a bastonate e omicidi di sindacalisti, politici di sinistra,
giornalisti onesti, maestranze non vendute. Quando questa coalizione del
cialtroname opportunista e rinnegato colmò la piazza di Belgrado e poi invase il
parlamento per bruciare le schede che avevano dato, nel settembre 2000, la
vittoria alle sinistre, i miei reportage dal campo venivano cestinati dal
redattore capo di Liberazione, Salvatore Cannavò (oggi leader, vedete quanto
affidabile, del frammentino trotzkista "Sinistra Critica"). Cestinò anche le mie
interviste ai capi di Otpor che esibivano grande fierezza per essere i fiduciari
“dell’intelligence di una grande paese come l’America” e dichiaravano di
auspicare l’avvento di una “democrazia all’americana” in cui una “manodopera a
basso costo serba avrebbe fatto la fortuna delle multinazionali americane” e la
si sarebbe fatta finita con la “demagogia della garanzia del lavoro, della
sanità e dell’istruzione gratuite e per tutti”. Il compagno trotzkista Cannavò
fu invece svelto a invitare “i compagni di Otpor” agli appuntamenti no-global.
Ricordate, a monito perenne di cosa combinano ignoranza, viltà e opportunismo a
sinistra, i titoli che dal "manifesto" e dal "Liberazione" aprirono a caratteri
cubitali le prime pagine dopo il colpo di Stato che rovesciò Milosevic e pose
fine alla sovranità e al socialismo serbi: "Belgrado ride", l'uno, "La primavera
di Belgrado", l'altro. Come il "New York Times".
Tornai ancora
a Belgrado, quando tutto era davvero finito. I serbi, la Jugoslavia, l’Europa,
la pace, la verità avevano perso. Si poteva espandere a macchia di vetriolo,
senza più oppositori, l’infame inganno di una “pulizia etnica” nel Kosovo, con
la quale si volle giustificare la fuga di povere popolazioni dai bombardamenti
Nato e l’espulsione di 300.000 serbi e rom innocenti ad opera degli ascari Nato
e dei killer narcotrafficanti dell’UCK. Disintegrata la trincea jugoslava,
smembrata una nazione democratica, progressista, antimperialista nei suoi
segmenti etnici e confessionali, creata la piattaforma per la penetrazioni,
bellica o con le “rivoluzioni colorate” tipo Otpor, verso Est, verso gli
idrocarburi del Caucaso e l’oppio afgano, rinchiuso nel braccio della morte
dell’Aja e nel cappio della diffamazione uno dei più onesti ed equilibrati
uomini di Stato del nostro tempo, la strada era stata aperta al terrorismo
imperialista globale e permanente.
A mio avviso,
soprattutto misurando la vicenda jugoslava contro quella irachena, dove una
Resistenza di popolo saggiamente predisposta dalla sua dirigenza, ha ostacolato
la soluzione colonialista, a Slobodan Milosevic possono essere imputati solo due
errori. Aveva resistito all’infame ricatto di Rambouillet, col quale, in cambio
della pace la Serbia doveva farsi occupare dai briganti Nato, e quel gesto di
forza e di dignità aveva mobilitato il suo popolo alla resistenza. Possono
essere considerati errori - ma chi ne può avere certezza? -i due accordi
successivi di Dayton nel 1995 e di Kumanovo nel 1999, seppure motivati
dall’impegno, questo sì umanitario, di salvaguardare genti che avevano sofferto
l’indicibile da un ventennale ostracismo internazionale, dalle sanzioni e dalle
guerre. Possiamo immaginare, alla luce della vittoriosa guerra di popolo
irachena, cosa sarebbe successo nella Serbia che aveva cacciato di sua sola mano
la Wehrmacht, se il rifiuto della Pace di Kumanovo avesse costretto i mercenari
della Nato a misurarsi con un esercito di popolo, pratico di ogni anfratto della
sua terra e collaudato dal confronto con l’allora più potente esercito d’Europa.
Certo sangue, lacrime, sacrifici inenarrabili, ma probabilmente l’avanzata del
carnefice planetario sarebbe stata arrestata prima della trincea irachena. Quale
governo europeo avrebbe potuto sostenere il peso di centinaia di suoi giovani
militari caduti in un’operazione che si sarebbe evidenziata via via più
criminale?
L’ultima mia
Serbia l’ho vista qualche tempo dopo, a trauma collettivo subito, a futuro
oscurato. Con il difensore di un popolo che aveva saputo imporre la sua agenda
ai grandi, venduto e martirizzato in un paese lontano, sembra che si sia
dissolta ogni capacità di reazione. Al vertice, coperte da un personaggio da
incolore mezza stagione, Kostunica, si avvicendavano bande di malfattori e
rinnegati. Era estate, ma neanche la stagione sorrideva a questo “volgo disperso
che nome non ha”. Le strade di Belgrado, di Pancevo, di Kragujevac, di Nis, su
cui ancora incombevano scheletri di corpi urbani che nessuno più faceva
rivivere. Gli anfratti suburbani in cui era stato ammassato il milione di senza
terra, senza casa, senzapatria, espulsi da Croazia, Bosnia, Kosovo. Passanti
infreddoliti che sembrano perdersi in un vuoto post-storico, come nella polvere
volteggiano prive di senso cartacce che un tempo erano alimenti, libri,
manifesti, lettere. Ricordo il mio ultimo saluto, dall’autobus, a una
protagonista della forza che aveva fatto rinascere la Zastava, una comunista,
figlia di partigiano. Il suo sguardo mi riportava a quello di un vecchio
palestinese davanti alla fotografia del suo villaggio perduto.
Un generoso
lavoro di resistenza di compagni, riuniti nel Coordinamento Nazionale per la
Jugoslavia (poi decaduto in autoreferenziale e ridondante memoriale), in pochi
altri momenti di militanza, come “SOS Jugoslavia” e l’associazione di Trieste, e
di pochi serbi della diaspora, per anni uniche voci di contrasto alla menzogna,
ha dovuto ridursi a inascoltata denuncia di disgrazie epigonali, a scarsi
interventi assistenziali, a ricordi. E, in perfetta solitudine, a una tardiva e
perfino poco convinta mobilitazione in difesa di Milosevic e della verità sullo
pseudoprocesso dell’Aja. Solitudine di cui possiamo ringraziare, oltrechè un
pubblico offuscato dall’inquinamento mediatico di destra, di centrosinistra e di
“sinistra”, anche la timidezza con la quale i personaggi di riferimento
dell’area antagonista hanno risposto al martellamento demonizzatore. Quasi che
corressero qualche inaccettabile rischio di carriera a compromettersi con la
verità.
Personalmente
ho potuto misurare la distanza che correva tra la percezione nella base di
sinistra su chi erano i buoni e chi i cattivi nei Balcani, e la prudente
riservatezza, i distinguo a mezza bocca, dei leader del movimento. C’è rimasta,
nel desolante silenzio di voci balcaniche, la denuncia e il sostegno dell’unica
bandiera all’apparenza non ammainata: Slobodan Milosevic, presidente della
Jugoslavia, incarcerato all’Aja e ora ammazzato oberandone il cuore malato di
prove insostenibili, poi avvelenandolo. Non si poteva tollerare che continuasse
a sbugiardare i suoi boia, a vincere ogni confronto e quindi a validare la
sacrosanta richiesta di risarcimenti del suo popolo. Tanto meno lasciargli tempi
di ripresa accettando la richiesta di un breve periodo di cura a Mosca dove,
peraltro, medici non al guinzaglio della Del Ponte avrebbero potuto scoprire la
terapia assassina. Dove Slobo avrebbe potuto parlare con giornalisti non
velinari e compromettere ulteriormente il gioco. Leggere gli atti del processo
per credere. Leggere, invece, quanto ha scritto sull’evento l’unico quotidiano
italiano ancora “diverso” , “il manifesto”. Messa in salvo un po’ di coscienza
con la condanna dell’intervento Nato, ecco che si rilanciano e si riabilitano,
contro ogni evidenza storica nel frattempo disponibile a chiunque, tutti gli
stereotipi della gigantesca truffa. Si esonerano i mandanti della morte di
Slobo, ormai inchiodati da elementi inesorabili, parlando sprezzantemente di
“milioni di teorie e complotti a cavallo di fantapolitica e storie di spionaggio
di altri tempi”; si parte definendo il difensore dell’unità jugoslava, l’unico
dei personaggi di quella stagione né quisling, né chauvinista, “uno dei
protagonisti della mattanza balcanica”. Si parla, riferendosi al famoso discorso
di Kosovo Polje del 1989, in cui, pur garantendo ai serbi del Kosovo protezione
dai pogrom albanesi sollecitati dai cospiratori imperialisti, Slobo s’impegnò
come nessun altro leader delle provincie a salvaguardare i pari diritti di tutte
le popolazioni jugoslave, come del lancio di una "grande e ipernazionalistica
Serbia", avallando l’alibi dell’aggressione che sarebbe partita da lì a poco.
Cerchiobottismo, si direbbe, che da anni ci rifila una specie di avallo ex post
alla menzogna della pulizia etnica serba, ora diventata addirittura “campagna di
terrore verso gli albanesi”, secondo quanto dettavano Giovanna Botteri e
l’infiltrato radicale Antonio Russo, che sparava cazzate granguignolesche di
matrice Nato da un finto nascondiglio a Pristina. Le porcherie di questo
provocatore ebbero fine in Cecenia. Logicamente.
L’avallo
viene con quel “*contro*puliza etnica” con cui lo "specialista" Tommaso De
Francesco si ostina a definire le stragi degli ultimi serbi del Kosovo e che
pareggerebbe implicitamente un qualche conto. Stesso avallo viene ripetutamente
offerto, a scorno di tutte le documentate smentite, all’altra delle grandi
truffe che, dagli attentati al mercato di Sarajevo in giù, hanno giustificato la
distruzione della Jugoslavia: la “strage di Sebrenica”. Le bande Otpor, che
certamente si erano trascinate dietro disillusi e illusi della sofferenza serba,
oltre alle milizie armate del sindaco nazista di Cacak , diventano per Tommaso
Di Francesco “la folla scesa in piazza a Belgrado per ottenere il riconoscimento
della vittoria alle presidenziali di Vojslav Kostunica”. Sul discorso di Kosovo
Polje, che non deve aver mai letto per intero, nella sua appassionata
perorazione del pluralismo e delle pari dignità, ecco che viene riesumata la
bugia del lancio di una “Grande Serbia”, che avrebbe tolto al Kosovo l’autonomia
garantitagli da Tito. Possibile che un esperto giornalista non sappia come
l’unica cosa che Belgrado tolse al Kosovo, già in pieno pogrom antiserbo ed
antijugoslavo per conto dell’imperialismo, era l’assurdo e paralizzante diritto
di veto sul legiferare delle altre repubbliche e della federazione intera?
L’autonomia restò intatta, per quanto emissari di Washington, come Soros e madre
Teresa di Calcutta, già vi stavano costruendo uno Stato parallelo, albanese,
etnicamente pulito, eminentemente un narcostato al servizio della finanza
occidentale. Con il concorso di un collega, anche lui da tramandare agli onori
dei negazionisti della verità (non ci sono solo quelli dell’olocausto), il
giornalista ripercorre proprio tutte le tappe dell’intossicazione: “estremismo
nazionalistico che ispirava il suo regime”, “gestione di un paese solo
apparentemente democratico” (dove pur si votava con una frequenza quasi
maniacale tra repubbliche, federazione, amministrazioni locali, dove le grandi
città venivano conquistate dall’opposizione monarchica e dove, in piena guerra,
si andava e si veniva come Pisanu o Maroni si sognerebbe di lasciar fare), fino
alle infamanti “collusione con le organizzazioni illegali”. Già quelle che
avrebbero contribuito a formare il famoso “tesoro di Milosevic”, mai trovato,
mai esistito, al punto che perfino i suoi detrattori hanno dovuto ammettere che
Milosevic aveva come unico cespite il proprio stipendio.
Non basta a
riscattare tanta aderenza al diktat propagandistico degli aggressori, il
finalino con cui si mette in dubbio la credibilità giuridica di un tribunale
dell’Aja, creato dal vincitore e la cui procuratrice ha respinto ogni addebito
che milioni di cittadini colpiti avevano rivolto alla Nato dei 78 giorni di
crimini di guerra. Sai, caro collega, una volta che ti sei piegato all’assunto
principale, pulizia etnica, Sebrenica, regime autoritario, mafia, le tue sparate
contro la guerra etnico-imperialista hanno la forza di una pistolettata ad
acqua. Almeno i Disobbedienti, allora Tute Bianche, di Padova, una volta fatta
la megacazzata di andare, in piena guerra, a Belgrado e, ospitati dalla Tv di
Stato, di sbraitare contro il governo serbo aggredito e fraternizzare con forze
d’opposizione dichiaratamente filoamericane, oggi se ne stanno zitti. Il
gemellaggio con la radio Cia B-92, fatta allora passare per “radio di
movimento”, gli deve ancora bruciare. Ma dubito che bruci a una Wilma Mazza di
Radio Sherwood il ricordo di come i suoi picchiatori si fossero avventati, il 6
giugno ad Aviano, manifestazione contro la guerra, su coloro che alzavano
bandiere jugoslave, li avessero colpiti e ne avessero stracciato i vessilli.
Sotto la foto
di Slobo ora scorrono sullo schermo immagini di gente che porta fiori ai suoi
ritratti. “E tu onor di pianti Ettore avrai, ove fia sacro e lacrimato il sangue
per la patria versato…” Donne, uomini, vecchi e giovani serbi. Gente qualunque.
Sono tanti, sempre di più. Mi ricordano un mesto e forte corteo di contadini e
operai, di ex-partigiani e donne, in una ricorrenza lontana della morte di Tito.
Furono aggrediti e sprangati da giovinastri scesi da Radio B-92. Vecchi operai
coperti di sangue…”e finchè il sole risplenderà sulle sciagure umane”.Era un
rigido autunno di qualche anno fa. I soliti pochi, non ligi, non vili, ancora
una volta con un’inadeguata ma fedelissima rappresentanza serba, ci riunimmo
davanti alla prigione-fortezza di Scheveningen. Ci dissero che di là, oltre il
fossato e alle muraglie di bugnato, il carcerato poteva udirci. Centocinquanta
combattenti contro la menzogna si misero a lanciare messaggi d’affetto
urlando:”Slobo-Slobo”! Fino a quando energumeni olandesi in nere uniformi non
c’imposero di tacere. Guai a trasmettere ulteriore coraggio, quello che ti viene
quando scampi all’abbandono, a chi già aveva svergognato uno dopo l’altro i suoi
accusatori mercenari, aveva costretto alla ritirata testimoni tanto grotteschi
quanto istruiti per la bisogna. Pur di impedire che l’accusa al presidente
jugoslavo gli franasse addosso, ai giudici e ai governanti Nato, facendo
riemergere i mai considerati crimini Nato e lo spettro delle riparazioni dovute
al popolo serbo, il tribunale dell’Aja, il giudice Meron e la pseudoprocuratrice
Del Ponte (che chiamava la signora degli eccidi, Madeleine Albright, “madre del
tribunale”) abbandonarono ogni parvenza di legalità, di etica giudiziaria e di
umanità nei confronti del detenuto. Contro la sua volontà e contro il diritto
gli imposero avvocati d’ufficio con i quali ci si rifiuta di parlare, di cui i
tuoi testimoni non si possono fidare, che non ti riferiscono fatti rilevanti e
che, con un conflitto d’interesse di fronte al quale impallidisce anche quello
del malvivente nostrano, erano stati scelti tra i tuoi giudici! Nessuna autorità
del diritto internazionale ha avuto mai da obiettare contro aberrazioni come
queste, come la detenzione per cinque anni di un uomo affetto da ipertensione
gravissima, l’imposizione di ritmi di udienza da stroncare un rinoceronte,
l’espansione illimitata degli spazi e testimoni d’accusa e la riduzione a
pochissimo di quelli della difesa (non per nulla Slobodan è stato fatto morire
prima che fosse costretto a testimoniare il da lui citato criminale di guerra
Bill Clinton, seguito poi dai succedanei D’Alema, Blair, Chirac e affini), la
negazione di terapie richieste e l’obbligo a quelle non volute.
Milosevic,
nel silenzio del sistema legale e di quello mediatico, fu rinchiuso in una
vergine di Norimberga giudiziaria. Cionondimeno riusciva, passo dopo passo, a
far emergere il vero volto, euro-americano, delle guerre balcaniche, dei
massacri, delle pulizie etniche. Bisognava fermarlo. Lo si è fermato quando già
aveva vinto e il Tribunale dell’Aja per i crimini di guerra in Jugoslavia era a
tutti gli effetti destinato alla discarica della storia. Nelle ore prima di
quella foto sul televisore, Slobo mi aveva raccontato un gran pezzo della vita
sua e del suo paese. Un discorso la cui architettura erano fatti, date,
citazioni. Ne uscivano i protagonisti della vicenda nelle dimensioni e con i
profili che la storia conferma e confermerà: le ipocrisie dei negoziatori
alleati e i trucchi di Rambouillet, le mille diffamazioni di una sistema
imperialista che, essendo gestito da criminali, si era convertito in coacervo di
Stati criminali, l’utilizzo di mafie e quinte colonne contro il governo
democratico, l’ininterrotto uso dei termini “dittatore” e “despota”, le bugie
sui famigliari: Mira Markovic che diventa “Lady Macbeth”, secondo un’iconografia
classica degli stregoni della guerra psicologica, la stessa delle varie “Lady
Antrace” o “Lady Veleno” irachene; la piccola boutique del figlio Marko che
diventa la satrapica catena di negozi di un puttaniere che, in pieno
bombardamento, si permette addirittura di costruire un parco giochi per bambini,
magari per attenuare il trauma delle atrocità Nato… Ma anche il racconto della
propria vicenda come barriera contro la spinta verso l’abisso di qualcosa che
andava ben oltre la Jugoslavia. Slobo aveva parlato con voce piana, senza
alterarsi, con qualche virata verso l’ironia, con qualche momento accorato. Poi
la foto e ci siamo salutati, noi con la sensazione fredda di un qualcosa di
terribilmente inesorabile, lui certo con la stessa consapevolezza, ma senza
aggravarci dandocela ad intendere.
Curiosamente,
tra i tagli di luce che dagli alberi neri piovevano sul viale, come fossimo
davanti al banco di un “Tre palle un soldo” mi sfilavano nella mente le facce
dei politici che accompagnano la stagione del nostro sconforto: pagliacci,
imbonitori, trucidi, idioti, perversi, voraci, ottusi, volgari, osceni.
Milosevic, alle nostre spalle nell’arco del portico, ci salutava con la mano.
Strana inversione : noi partivamo, ma restavamo; lui era fermo lì, ma capimmo
che sapeva di essere lui ad andar via, a lungo. Quell’intervista, oggettivamente
storica, la portai all’allora mio giornale, “Liberazione”, quello di Bertinotti.
L’omologa del capo, Rina Gagliardi, la rifiutò con la seguente motivazione, di
chiaro tenore democratico e professionale: “Mica ci possiamo appiattire sulle
posizioni di un Milosevic!”. E già, “il macellaio dei Balcani”… Passai
l’intervista a gratis al maggiore quotidiano italiano, “Corriere della Sera”,
che ovviamente la pubblicò. A proposito di ignavia. Ne hanno espresso uno
tsunami i capi e capetti del movimento, sia quelli che si erano squali-ficati a
Sarajevo, cattopacifisti, sindacalisti, disobbedienti imbroglioni o imbrogliati,
missionari, ambiguoni ed infiltrati travestiti da non-violenti, sia gli
antimperialisti. Antimperialisti finchè si vuole, ma rettificare le infamie su
Milosevic e schierarsi dalla parte di questo autentico combattente
antimperialista, beh, sarebbe imbarazzante, magari pericoloso. Ne avete
ascoltato in questi giorni il silenzio da sordomuti? Niente giornata della
memoria per la Serbia, per Milosevic. Slobo, pochi giorni prima, aveva detto ad
amici che non si sarebbe arreso a nessuno, se non alla morte. Ha mantenuto la
sua promessa e, come aveva denunciato gli assassini del suo paese e gli
iniziatori di una guerra globale contro l’umanità, prima di essere ucciso aveva
additato i suoi boia e i loro fini.
Ma che la
morte lo abbia sconfitto è tanto poco vero quanto lo fu nel caso del Che. Gli
ignavi di allora furono confusi, i bugiardi smascherati, i vili svergognati, i
criminali puniti, o quanto meno condannati dagli uomini. E il Che vinse in
Bolivia. Quarant'anni più tardi, ma vinse. Così sarà, a tempo debito. Qualche
serbo c’è ancora. Rispondendo alla domanda in televisione su cosa pensasse di
Slobodan Milosevic, il calciatore Sinisa Mihailovic, quello del “target” sotto
la maglia, ha detto, senza un filo di esitazione e con decisione irrevocabile,
“*E’ il mio presidente!*” Vorrei poter dire la stessa cosa anch’io. La dico.
Pubblicato da
Fulvio Grimaldi alle ore 09.39
Aprile 21st, 2010 at 6:01 pm
L’appello del giornalista Fulvio Grimaldi
Cari amici che avete la generosità di aver seguito e di seguire il
mio lavoro a suo tempo sui giornali e in tv (Tg3),
ora in
rete e con i video (documentari sulle situazioni di conflitto), vi
racconto una vicenda del tutto esemplare per il quadro in cui ci
muoviamo. E vi chiedo adesioni e supporto. Potrebbero essere importanti
per l’esito finale.
Il 9 maggio del 2003, collaboratore a
contratto del quotidiano del PRC Liberazione, scrivevo nella mia rubrica
un articolo su recenti accadimenti a Cuba che avevano visto la condanna
a morte di tre terroristi, dirottatori a mano armata di un’imbarcazione
cubana, e a pene detentive di altri 75. La valutazione di quei fatti non
corrispondeva a quella data dall’allora segretario nazionale Fausto
Bertinotti, né tantomeno allo tsunami di attacchi a Cuba da parte della
destra mondiale, unanimi tutti nel deplorare il trattamento riservato a
“intellettuali e giornalisti dissidenti”. Le mie informazioni, poi nel
tempo confermate da documenti incontrovertibili, mi avevano fatto invece
rivelare nell’articolo come quei “democratici dissidenti” fossero al
soldo degli Stati Uniti e stessero preparando una campagna di azioni
terroristiche, di cui il dirottamento sarebbe stato solo il primo.
Erano cioè
mercenari al soldo di uno Stato che lavorava per la distruzione della
rivoluzione cubana. Il giorno successivo alla pubblicazione del pezzo,
in cui peraltro deploravo quella come tutte le condanne a morte, fui
licenziato su due piedi, pur nel pieno di una campagna del PRC in difesa
dell’articolo 18 aggredito. Non ricevetti la lettera di prammatica del
direttore, Curzi, ma solo una telefonata dell’amministratore. Chiesi di
ricevere una comunicazione ufficiale. Non la ricevetti. Ma alla rabbia
di numerosi lettori e compagni del PCR, che si espressero contro il
brutale provvedimento con oltre 2000 firme, Bertinotti, Curzi e la
vice-direttrice Gagliardi risposero sul giornale e su altri mezzi
d’informazione (Il Foglio, Radio Anch’io), affermando cose false: che
avrei deviato dal tema assegnatomi, l’ambiente, o che avrei deviato
dalla linea politica del partito.
La prima giustificazione era falsa,
perché fin dal primo giorno della mia collaborazione, 1999, avevo potuto
occuparmi in articoli e rubriche di ogni tema che volessi scegliere. Una
smentita radicale veniva poi dalle mie corrispondenze di guerra dai
conflitti nei Balcani, in Palestina e in Iraq, tutti viaggi effettuati a
spese mie. Anche la seconda spiegazione era indebita, giacchè della
linea politica della maggioranza si trattava semmai, non di quella di
tutto il partito, in quanto una forte minoranza appoggiava le mie
valutazioni. Inoltre era sempre stato affermato dai vertici del partito
che nel partito stesso, come nel giornale, doveva essere rispettato il
massimo della dialettica e del pluralismo. Un articolo dello Statuto del
PRC garantiva addirittura il diritto degli iscritti di manifestare le
proprie critiche alla linea del partito, perfino all’esterno del partito
stesso. Il diritto di replica alla false affermazioni dei vertici,
assicurato dalla legge sulla stampa, mi venne sistematicamente negato.
Da questa vicenda ricavai un forte
danno, oltreché morale, professionale, di perdita di credibilità e di
prestigio tra compagni e lettori, anche di riduzione del bacino di
coloro che erano interessati ai miei documentari e libri. Feci causa e
la vinsi. Il risarcimento del danno fu calcolato dal giudice in 100mila
euro. Ora, sette anni dopo, il giudice d’appello, contravvenendo a una
consolidata giurisprudenza in materia di cause di lavoro, ha rovesciato
tale sentenza e mi ha imposto di restituire quella somma. Somma, che
forte appunto di quella giurisprudenza, ho impegnato in gran parte nei
viaggi che mi hanno permesso di realizzare i miei documentari da Iraq,
Palestina, America Latina, Balcani. Si ricordi che quando vinsi la
causa, Bertinotti era il segretario di un piccolo partito di
opposizione, quando si avviò l’appello, però, l’uomo aveva assunto la
terza carica dello Stato.
A dispetto della sostanziale
ingiustizia del provvedimento, ho offerto alla controparte una
transazione per metà della somma. E’ stata respinta e mi si è
manifestata l’intenzione di arrivare all’esecuzione, cioè al
pignoramento di quanto possiedo. Sarebbe la fine della mia attività di
militanza giornalistica, con ovvia soddisfazione di non pochi. Ho
scritto a Paolo Ferrero, segretario del PRC, a Dino Greco, direttore di
Liberazione, e a Roberto Natale, presidente della Federazione Nazionale
della Stampa Italiana. Ad oggi, nessuna risposta.
Credo che a questo punto solo una
forte pressione di quel pezzo di società che crede nell’informazione
libera e nella libera espressione del pensiero, specie in un giornale e
in un partito che si dicono comunisti, possa convincere i responsabili
dal recedere da un comportamento che viola ogni principio normativo,
etico e deontologico della mia professione. In attesa di altre
iniziative cui sto pensando, come una conferenza stampa e uno sciopero
della fame davanti alla sede di Liberazione e del PRC, chiedo alle
persone di buona volontà di esprimere qui e in tutti i modi la
solidarietà a questa causa di democrazia, giustizia e libertà. A una
voce che rischia di essere soppressa. Grazie a tutti.
Fulvio Grimaldi
http://lpp.opencontent.it/blog/?p=1997
_____________________________
1999-2009. La criminalità organizzata
stupra la Jugoslavia
La sua solitudine
è peggio di Gaza. Credo che si chiami "Serbia".
30 marzo 2009 -
Fulvio Grimaldi
E’ il 24 marzo 2009
e io sto dicendo delle cose a un paio di centinaia
di persone. Ma le parole escono e se ne vanno come
per conto loro, come quando la Bialetti spurga il
caffè e certamente non pensa "caffè". Anch’io non
penso a quello che sto dicendo. Non ce n’è bisogno.
E non perché questo discorsetto al seminario del
Forum di Belgrado per un Mondo di Uguali, nel
decennale dell’aggressione Nato a quel che restava
della Jugoslavia, l’abbia preparato con grande
accuratezza, quasi a memoria. Piuttosto perché quei
concetti, che ora viaggiavano come suoni nell’enorme
sala del Centro Congressi Sava, erano sedimentati,
solidificati, avevano la consistenza della gramigna
che non richiede preparazione, cure. Sono cose che
mi porto dentro fin da dieci anni fa, fin da quando
mi trovai a puntare la telecamera sulle facce ferme
e sui canti del popolo di Belgrado allineato sul
ponte Branco, inerme, in una sfida ai codardi killer
dal cielo, killer della Nato, killer come
l’inserviente al pezzo Massimo D’Alema. Sul ponte
Branco c’era Antigone. Target , noi siamo pronti a
morire, voi no, voi solo a uccidere. Noi siamo
l’umanità, voi la barbarie. Ma poi non importava
neanche tanto quanto andavo dicendo, lì, in quella
specie di cosmodromo. Prima di me avevano parlato
ben altre voci, ben altri testimoni di quel nuovo
mare di sangue sgorgato dal cuore d’ Europa dopo il
mattatoio interimperialista della II guerra
mondiale. Clinton e i suoi eurosbirri ne avevano
fatto il tappeto rosso per gli stivali chiodati di
chi si apprestava alla "guerra infinita". Al
richiamo di Zivadin Jovanovic, già ministro degli
esteri del martire Slobodan Milosevic e indomabile
cultore della memoria, dell’accusa e della promessa
serba, con il suo Forum di Belgrado, erano accorsi
Ramsey Clark, l’altro americano per eccellenza,
sempre primo a fianco delle vittime di quella
nazione di cui era stato ministro della Giustizia,
Michel Chossudovsky, il controinformatore canadese
con sulla penna le tacche dei tanti disvelamenti di
delitti e inganni Usa, Peter Handke e Juergen
Elsaesser, gli scrittori di lingua tedesca che hanno
rovesciato il paradigma imperialista, con i suoi
ottusi orecchianti dei partiti di "sinistra", che
rovesciava l’equazione carnefici-vittime nel suo
contrario. E Diana Johnstone, la prima, grandissima
vindice della verità di quanto davvero succedeva nei
Balcani e nel Kosovo affidato dall’impero ai suoi
gangster di passo. Tanti altri, da quattro
continenti. E poi i serbi che non si rassegnano.
In quella specie di
dissociazione per la quale le parole andavano da una
parte e i pensieri da un’altra, vedevo non le
ordinate file di banchi e poltrone di un auditorio,
con quella folla di inconsolabili della Jugoslavia
perduta, della Serbia mutilata, della verità negata,
ma rivedevo sotto il palco nella grande piazza della
Repubblica, scintillante di tricolori con la stella
rossa al centro, una folla tumultuante con i target
della sfida e della dignità fissati sul petto. Una
folla che invocava e assicurava resistenza. La
Serbia era ancora viva, la Jugoslavia non era ancora
persa. In Europa non tutto era precipitato nella
collusione con il verminaio dei demoni, nella melma
della resa. Da quel palco, e poi sui giornali e alle
televisioni che mi intervistarono, dissi una frase
per la quale in Italia i compagni – i compagni! – mi
avrebbero poi pesantemente strigliato: "Meglio serbo
che servo ". Facile assonanza, vero, ma sacrosanta
verità. Scandalosa per coloro che si erano
acconciati a scimmiottare le perfide demonizzazioni
degli "ipernazionalisti serbi". "Nazionalisti" serbi
al pari degli "estremisti" palestinesi e dei
"terroristi" iracheni.
Quando la mattina
dopo le prime bombe su Belgrado, nella riunione di
redazione del TG3, ci venne impartita la nozione
dell’ "intervento umanitario" , da sostenere come
verità incontestabile, Giovanna Botteri si
scaraventò sui profughi kosovari per estrargli, a
colpi di ricatti umanitari (ricordate i campi
dalemiani dell’Operazione Arcobaleno, poi finiti
sotto processo?), orrori e anatemi sui serbi, io
lasciai la Rai per sempre e me ne andai con una
telecamera a Belgrado. A Novi Sad erano stati
disintegrati i più bei ponti sul Danubio e la
raffineria in fiamme spargeva veleni nel fiume e nei
polmoni, a Pancevo l’enorme complesso petrolchimico
bruciava e assolveva alla funzione assegnatagli
dalla Nato di contaminare acque, terre, aria a
futura moria di questo "popolo di troppo". A
Belgrado due missili sventrarono l’albergo al quale
eravamo destinati e, un attimo dopo, l’ambasciata di
un paese, la Cina, che non condivideva
l’accondiscendenza del fedifrago russo Eltsin nei
confronti degli aggressori: a buon intenditor, un
paio di missili. C’è una frase dolorosa che ricorre
in Serbia, "ci fosse stato allora Vladimir Putin!".
Il modo con cui la Russia di Putin ha saputo
risollevarsi dalle vergogne degli oligarchi mafiosi
ossigenati dagli Usa, con cui ha saputo rispondere
all’avventura sanguinaria contro l’Ossezia del
manutengolo georgiano, rende bruciante il rimpianto.
Venivano
disintegrati ospedali, scuole, asili, case, ponti,
treni, centrali elettriche, tra i 3.500 uccisi da
Clinton e dai suoi furieri europei c’erano i bambini
delle incubatrici cui era venuta a mancare
l’elettricità. Già allora, prima di Baghdad, prima
di Gaza, si capiva che gli interventi umanitari
erano mirati a eliminare pezzi di specie umana.
Oltrechè a distruggere infrastrutture la cui
ricostruzione poi, a colonizzazione completata,
avrebbe gonfiato i forzieri delle imprese dei paesi
assassini. Da Vienna, dove era scappato, il serbo
Djindjic dettava ai topgun gli obiettivi da colpire.
Sarebbe poi stato innalzato al rango di
premier-fantoccio da coloro cui aveva venduto la sua
gente. Ma una mano ignota gliela avrebbe poi fatta
pagare e avrebbe restituito scampoli di dignità ai
serbi.
La Zastava, la più
grande fabbrica dei Balcani, cuore operaio della
Serbia del socialismo autogestito, era stata
polverizzata da 22 missili, lanciati anche sugli
operai postisi a scudo umano del lavoro. C’erano
testate all’uranio, sulla Zastava, come
sull’aeroporto militare di Belgrado e su tanti altri
obiettivi. Nella prima guerra del Golfo avevano dato
buona prova: nel giro di quattro anni i casi di
cancro erano decuplicati e bambini deformi,
senz’occhi, senza genitali, con le braccia monche
che nascevano dallo stomaco e i crani aperti sulla
materia cerebrale, nascevano più numerosi dei figli
dell’agente Orange di memoria vietnamita e della
massima stragista imperiale Monsanto (oggi in azione
con gli OGM). Ci ricevettero i dirigenti sindacali
che, con la fuga dei padroni, Fiat in testa, si
erano messi a capo delle macerie e da subito avevano
iniziato a rimettere mattone su mattone, ferro su
ferro. Uscendo da lì, ci inseguirono due missili.
Ricordo con un sacco di simpatia, accanto a noi
buttatici dal pullman, un Raniero La Valle che, con
i suoi corti passetti, trotterellava impassibile a
esaminare i crateri. Non c’era solo Djindjic,
c’erano quelle pustole di vaiolo che sono le spie.
Tempestivamente telefonavano a chi di dovere,
solitamente ad Aviano, con l’indicazione di qualcuno
o qualcosa da azzerare. Li abbiamo avuti anche a
Gaza e, giustamente, non sono sfuggiti alla
punizione di Hamas. Intanto a Nis piovevano bombe a
grappolo destinate al mercato pieno di gente e su
Fruska Gora, il più bel parco naturale dei Balcani,
i bombaroli avevano esercitato il loro odio per
l’integrità di ambiente e animali.
Contemporaneamente il Kosovo, in difesa del quale si
pretendeva di aver allestito quell’apocalisse,
veniva annegato nell’uranio. Serviva a far scappare
torme di terrorizzati da attribuire alle "atrocità"
serbe.
Un anno dopo, solo
un anno dopo, la Serbia si era rimessa in piedi. Una
riserva di vita e di volontà non stroncata neanche
da dieci anni di feroci sanzioni e poi dalla più
feroce aggressione prima dell’Iraq. Due ponti su tre
a Novi Sad erano tornati transitabili, la Zastava,
un autentico prodigio dell’orgoglio operaio,
rarissimo bene nell’ imbastardito Occidente di oggi,
aveva già ripulito tonnellate di detriti e rimesso
in funzione due linee di montaggio. C’era un fervore
di ripresa che aveva un grande e nobile riferimento,
il presidente della Federazione ancora jugoslava,
Serbia-Montenegro, Slobodan Milosevic. Più diffamato
di lui, con la piena complicità dell’idiozia o del
servilismo delle sinistre, c’è forse solo Saddam.
Toccava toglierlo di mezzo. E chi meglio del fidato
Djindjic? Attuato il colpo di Stato del’ottobre 2001
con le milizie "nonviolente" di Otpor, primo esempio
di "rivoluzione colorata" organizzata dalla cosca
George Soros-National Endowment for Democracy"- Cia,
Djindjic consegnò l’estremo difensore di una
sovranità e di un socialismo senza pari in Europa a
una delle più nauseanti prostitute nella storia
della magistratura mondiale, Carla del Ponte,
pubblico ministero nel tribunale dell’Aja,
illegittimamente allestito e pagato dai cannibali
Usa, con per presidente un’altra oscenità europea,
l’italiano Antonio Cassese (successivamente
impiegato per la destabilizzazione colonialista del
Sudan). Djindjic ricevette 30 milioni di dollari. La
cifra trenta ne sancisce l’identità.
Dal TG3 ero passato
a "Liberazione", il foglio del PRC, allora sotto il
compagno comodissimo a tutti e a chiunque, Sandro
Curzi. Ne ero l’inviato ufficiale nei Balcani.
Rispondevo, oltreché a Curzi, di cui ogni arto
pendeva dai fili di Bertinotti, a un certo Salvatore
Cannavò, caporedattore esteri che, in combutta con
il responsabile esteri del partito, Ramon Mantovani,
faceva in modo che la linea del giornale su
avvenimenti come l’assalto Nato alla Jugoslavia, o
il genocidio israeliano dei palestinesi, o la
satanizzazione degli iracheni, fossero compatibili
con lo scavo che il monarca stava compiendo per
penetrare dal basso nei salotti del potere
ufficialmente avversato. Difatti, prima di rendere
l’anima politica a un giusto signore, la nuova talpa
Bertinotti venne premiata con la terza carica dello
Stato. Le mie corrispondenze da sotto le bombe e poi
dalla Jugoslavia che si rimetteva in piedi e in
sesto già avevano sollevato malumori bertinotteschi
e i rimbrotti del suo ancellame giornalistico. Ma
questo fu niente rispetto a quanto mi capitò
nell’ottobre belgradese del 2001. Elezioni vinte
dalla sinistre, schede della vittoria bruciate in
parlamento da Otpor, l’organizzazione di miliziani
Cia che poi avrebbe istruito gli affini in Ucraina,
Georgia, Libano, Turkmenistan, Venezuela (dove li
smascherarono e buttarono fuori a calci), Milosevic
agli arresti domiciliari, la teppa in piazza a
bloccare il paese, massacrare di botte sindacalisti
ed esponenti di sinistra, occupare la Tv. Scrissi
tutto questo, mandai le interviste con i capi di
Otpor che, fierissimi, ammettevano di essere
"sostenuti dal servizio segreto del più grande paese
democratico" , di essere stati addestrati a
violentissimi moti di piazza nonviolenti da generali
Usa a Budapest, di vaticinare una Serbia Nato piena
di multinazionali "attirati da una forza lavoro
qualificata e a basso costo". Al rientro scoprii che
Cannavò aveva cestinato tutto. Anche un articolo in
cui ponevo a paragone i nostri lager per nomadi ai
quartieri di belle case allestite per i Rom dal
governo serbo e dalle associazioni di solidarietà ad
esso riferite: "Troppo filoserbo " rampognò il
Cannavò, "sei forse pagato da Milosevic?" Meno male
che per rispondere a questo supergiornalista, oggi
ahinoi dirigente di una micropartito trotzkista
("Sinistra critica", che forse sta per "in
condizioni critiche"), non mi sarebbero bastate le
cadenti forze di vegliardo. Incompetenza, boria,
cretinaggine e ignoranza abissale della professione
furono infine coronate dal rifiuto di pubblicare la
mia intervista a un Milosevic che, dalla frode
inflittagli con l’accordo di Dayton da Richard
Holbrooke (oggi comandato dal buon Obama ad analoghi
uffici in Afghanistan e Pakistan), fino al momento
del suo confinamento ai domiciliari, mi aveva
rifatto la largamente ignorata storia della
cospirazione contro il suo paese. "Sembreremmo
appiattiti su Milosevic", spiegò la virago che
allora faceva da vice a Curzi e che poi Bertinotti
premiò con lo scranno in parlamento. Lì prese
coerentemente a svolgere i suoi servigi al governo
di guerra concentrandosi su Saddam e sull’Iraq. Era
l’ultima intervista concessa dal presidente prima
del suo rapimento e consegna agli sgherri dell’Aja.
A pubblicare l’intervista fu poi il "Corriere della
Sera" che gli scoop li riconosceva.
Dall’inizio della
strategia balcanica messa in campo dai determinati
eredi di fascio e svastica fin dai primi anni ’90 e
del tutto integrata al programma Usa-UE di rapina,
distruzione e genocidio, i nostri sinistri avevano,
per la parte ottusa, studiato e capito niente, forti
di deformate ma arroganti eredità analitiche e, per
la parte rinnegata, opportunisticamente e vilmente
allineato le proprie valutazioni alle truffaldine
macchinazioni delle élites guerrafondaie. Coprendosi
le vergogne collaborazioniste con piagnistei sulla
"violenza di tutte le parti" , erano partiti in
pellegrinaggio per Sarajevo contro il "nazionalismo"
di chi difendeva quella che era stata la più
avanzata esperienza sociale d’Europa dai veri
nazionalismi etnico-confessionali. Tribalismi e
sciovinismi con cui si puntava a frantumare il
pluralismo democratico della Jugoslavia, eliminare
uno spazio di sovranità che impediva l’espansione
del brigantaggio Nato verso Est, liquidare un
modello di organizzazione sociale non capitalista,
creare corridoi energetici a dominio multinazionale,
costituire mafiostati proni a ogni ricatto
imperialista, stabilire nel Kosovo, etnicamente
pulito dai serbi e da altre minoranze riottose, il
proconsolato di bande criminali che garantissero il
transito verso i mercati occidentali di quel flusso
di stupefacenti al quale si affida un ruolo
importante nella salvezza del sistema. Il tutto
garantito dalla più grande base militare Usa, la
Bondsteel kosovara, costruita nel mondo dopo il
1945.
A questo scopo
servivano un "dittatore" Milosevic che, reggendo un
paese dai venti partiti politici, dei quali 18 di
libera opposizione e al governo nelle maggiori città
serbe, con una stampa al 92% asservita agli
interessi occidentali, era probabilmente il più
democratico governante d’Europa; una "pulizia
etnica" nei confronti di kosovari albanesi che era
la deformazione della legittima difesa di uno Stato
sovrano dall’eversione banditesca ordita a
Washington, Roma, Berlino, Vaticano e che culminò
con l’espulsione di 300mila serbi e rom e la
distruzione di 150 monumenti storici
serbo-ortodossi; una "tragedia bosniaca" sostenuta
dalla balla Nato e sofriana di granate "serbe" sul
mercato di Sarajevo, che erano invece partite da
cannoni bosniaci (modello 11 settembre), e
corroborata da una falsa "strage di Sebrenica" che
serviva a coprire le vere stragi compiute dal
bosniaco Naser Oric ai danni dei villaggi serbi; la
satanizzazione dei leader serbi Karadzic e Mladic,
cui si doveva negare il sacrosanto ruolo di
difensori di una comunità serba che si rifiutava di
restare vittima della riconfigurazione colonialista
dei confini.
Tutto questo doveva
poi trovare la sanzione definitiva nel processo e
nella condanna all’Aja di Slobodan Milosevic, sotto
la ferula, teleattivata da Washington, di Carla Del
Ponte. Un obbrobrio giudiziario, ripetuto poi nei
confronti di Saddam Hussein, con il quale si puntava
ad occultare sotto una sentenza abnorme le
spaventose responsabilità euro-statunitensi,
comprese quelle del recidivo criminale di guerra
D’Alema ("Lo rifarei" , dichiarò il barbieruccolo di
Gallipoli all’atto della consacrazione
dell’indipendenza del narcostato kosovaro), nelle
devastazioni e negli stermini di massa della
Jugoslavia. Il gioco fallì per la totale incapacità
di dare credibilità anche ad una sola delle mille
nefandezze attribuite al presidente jugoslavo. Di
fronte alla sua coraggiosa e documentata azione
difensiva si sgretolarono tutte le accuse e al
sicario Del Ponte e ai suoi mandanti non rimase che
fare morire Milosevic in carcere, lui e altri
coimputati. Gli fu negata l’assistenza sanitaria che
i cardiologi russi avevano diagnosticata
indispensabile e che si erano dichiarati pronti a
fornirgli.
L’intera, mostruosa
costruzione di menzogne allestita da chi stava
sbranando una preziosa, insostituibile, componente
progressista d’Europa fu sostanzialmente condivisa
dalle sinistre italiane. Cannavò e soci fondevano
lacrime di coccodrillo sulle vittime
dell’aggressione con l’avallo incondizionato a tutte
le mistificazioni che dovevano agevolare
l’aggressione e, da noi, l’azzeramento dell’articolo
11 della Costituzione. Gli ascari di Otpor, già
riconoscibilissimi allora, furono salutati come
"costola del movimento pacifista e no-global" e
invitati a convegni e celebrazioni. Gli sprovveduti
ed equivoci Disobbedienti di Casarini facevano
comunella a Belgrado e a Padova con i provocatori di
Radio B-92, del circuito Cia di "Radio Liberty",
riccamente foraggiati dal destabilizzatore ebreo
ungherese George Soros. Il rovesciamento golpista
del patriota Milosevic fu salutato da "Liberazione"
con l’indecente e criminale titolo "Belgrado ride".
Il "manifesto", sul quale Tommaso di Francesco, del
tutto sprovvisto di autonomia di giudizio, insiste a
cianciare di "contropuliza etnica" nel Kosovo
affidato al governo dei narcotrafficanti e
tagliagole Hashim Thaci e Agim Ceku, avallando così
la truffa di una mai esistita pulizia etnica serba,
non fu da meno e titolò: "La primavera di Belgrado".
Ennio Remondino, salutato come l’alternativa onesta
alle tendenziosità dei trombettieri
dell’imperialismo che imperversano sui grandi media,
ancora oggi non manca di infiorettare i suoi
funambolismi retorici sui Balcani con il riferimento
al "despota" Milosevic. E' stato il trionfo di una
simmetria che doveva superare lo jato tra colpevole
e vittima, rafforzando implicitamente le ragioni del
primo. Gli diedi il nome di
"nè-nè", di notevole successiva fortuna. Nè con la
Nato, nè con Milosevic. L'apogeo dell'opportunismo.
Ponzio Pilato.
Non stupisce se con questo retroterra mediatico e
politico, siano sparute e imbelli in Italia le
realtà organizzate che si propongono come fonti di
informazioni e solidarietà con i popoli massacrati
della ex-Jugoslavia. A parte qualche minuscola, ma
dinamica e generosa presenza a Torino ("SOS
Jugoslavia", pure presente a Belgrado con Enrico
Vigna) e a Bari, che opera tentativi di memoria,
solidarietà materiale e aggiornamento, esiste un
autoproclamato Coordinamento Nazionale della
Jugoslavia che riunisce intorno al classico capetto
autocentrato alcuni nostalgici ben intenzionati, ma
impegnati più che altro nell’archeologia storica dei
Balcani e nell' ormai estenuante rievocazione dei
delitti storici del fascismo da quelle parti. Quello
che sarebbe il compito fondamentale di una costante
informazione sugli esiti attuali dello stupro
jugoslavo, di assidui contatti con quel poco che,
particolarmernte in Serbia, ancora si muove a
contrastare la devastazione sociale e ideologica e
la spinta dei governanti fantoccio verso la svendita
della Serbia all’Unione Europea, viene sostituito
dalla ricerca di ombrelli politici alterni,
d'occasione, caratterizzati da frustrati settari
dell’autopromozione politica. Massima preoccupazione
pare essere la gara a impedire che altri possano
assumere ruoli di interlocutori fattivi con le forze
della resistenza. Un classico della disperante
sinistra italiana.
Il messaggio
dominante di tutte le voci del seminario di Belgrado
è stato la denuncia di una Nato che, con il concorso
del bombardiere D’Alema, in piena aggressione era
stata trasformata da alleanza difensiva in strumento
di offesa bellica a raggio mondiale. Quella Nato,
con le sue basi che fanno, insieme al servilismo di
tutti gli schieramenti politici succedutisi al
governo in Italia, del nostro paese un paese
vassallo, del tutto privo di autonomia e sovranità,
i cubani la chiamano "il patibolo dell’umanità".
Atterrisce vedere come dal discorso delle forze di
sinistra italiane, nessuna esclusa, quelle voci
siano state del tutto espunte e a parlare di
sovranità da recuperare, di basi da chiudere, di
Nato da scacciare, si passi per polveroso residuato
di battaglie fuori tempo. Allora, ancora una volta,
"meglio serbo che servo". Terminato il seminario c’è
stata una manifestazione nella centrale Piazza della
Repubblica. Poche persone, forse tremila, per un
evento di tale portata. Una folla smarrita e
confusa. Nessun Milosevic all’orizzonte. La
Jugoslavia svanita dall’immaginario collettivo, il
partito di Slobo, il socialista, cooptato nel
governo dei fantocci. Tanta frustrazione e tanta
rabbia che s’incanala verso velleitarismi impotenti:
"Dateci le armi!" gridavano gruppi di teste rasate
sotto le bandiere della Jugoslavia monarchica e poi,
tremendo, "via i comunisti !", con qualche sassata
al gruppetto del comunista Titanovic. Il trauma,
l’abbandono di tutti coloro che avrebbero dovuto
essergli vicini, a parte la Russia nuova, nessun
segnale di amicizia, di solidarietà. Tutti d’accordo
sulle bugie che strangolarono la verità dei serbi.
Non c’è rassegnazione, forse, ma stagnazione sì, e
disorientamento. Hanno fatto più danno i rinnegati e
disertori che il nemico. Come sempre. Sul ponte
Branco non c’è più nessuno. Penso che anche i
palestinesi dopo essere stati annichiliti e
squartati nel 1948, ci misero vent’anni prima di
riprendere coscienza di sé e generare i fedayin e
poi le intifade e poi l’eroica resistenza di Gaza.
Lungo la Kneza
Mihaila, l’isola pedonale dei bei negozi al centro,
sfilano ancora le filiformi bellezze belgradesi,
bionde che si consolano tirandosela come se
l’avessero inventata loro. I negozi esibiscono le
trucide griffe italiane, c’è Banca Intesa, italiana,
Banca Raiffainer, austriaca, la Deutsche Bank. Nelle
grandi librerie quando gli chiedi qualche testo di
teoria politica, Marx, Engels, ti guardano come se
avessi chiesto un osso di dinosauro. Non ce l’hanno.
Il palazzetto liberty dove s’erano insediati gli
infiltrati di Otpor e che avevo visto in pieno
embargo luccicante di computer e telefonini
modernissimi, scrivanie di mogano e arredi nuovi di
pacca, è abitato dai manager dei nuovi predatori.
Finisco in quella che era la mia trattoria
preferita. Al posto dell’anziana ostessa dagli occhi
strabici e dall’affettuosità casareccia verso gli
ospiti, tutti subito amici, c’è un grosso tizio con
la testa a cocomero, con lo sguardo fessurato e
infido, pare Gennaro Migliore. Non ha sorrisi, non
ce l’ha quasi nessuno da queste parti. Ma quando
arriva un trio trambustoso e vociante, dall’aria
inconfondibile dei boss, si piega in due, offre
tavoli, sposta sedie, allarga le fessure a smisurato
sorriso, sposta verso di loro una stufa a gas che
prima mi stava accanto.
Al tavolo di
fronte, sola, con una sigaretta dopo l’altra tra le
lunghe dita bianche, una donna immobile. E’ sui
quaranta e, dunque, non può non averle viste tutte.
E’ pallida e le ciglia tracciate dalla matita
scorrono alte, come usava in decenni lontani, su
occhi che non piangono ma sanno di pianti e che
fissano qualcosa che non sta nella stanza, ma dentro
di lei. I capelli sono lunghi e lisci sulle spalle e
hanno una ricrescita di settimane. Ogni tanto guarda
la punta della sigaretta, poi la tovaglia, ma sono
certo che non vede quello che guarda. Quando rivolge
gli occhi per un attimo verso di me, lo sguardo si
arena molto prima di raggiungermi. Tutto quello che
guarda pare essere chiuso dietro la barriera dei
suoi pensieri. E’ bella ed è stanca. E’ come immersa
in un vuoto immenso. Sopra, sulla parete, la
classica icona alla bizantina della madonna col
bambino. E’ lì da quando sono entrato. E’ lì
immobile quando me ne vado, dopo più di un’ora.
Aspetta. Che cosa aspetta? La sua solitudine è
peggio di Gaza. Credo che si chiami "Serbia".
http://www.peacelink.it/conflitti/a/29122.html
_______________________________________
Da: Fulvio Grimaldi
[mailto:bassottovic@libero.it]
QUESTI SONO PEGGIO (2)...
SADDAM IMPICCATO,
BUSH LIBERO,
PRODI FANTOCCIO DEL VENTRILOQUO SERIALKILLER, SINISTRE ALLA
DERIVA, PACIFISTI NELLA MERDA
tra Stati macellai e veltronisti vernacolari
che piangono su fantocci bruciati e non su Saddam Hussein
MONDOCANE FUORILINEA
30/12/06
di
Fulvio Grimaldi
In tempi di menzogna universale dire la
verità diventa un atto rivoluzionario
(George Orwell)
ONORE A SADDAM
Da Roma veltronizzata e, dunque, burinizzata,
cafonizzata,, glamourizzata, fuffizzata, vippizzata, sionizzata, clintonizzata,
inciuciata, paralizzata, inquinata, disastrata, vernacolizzata, vaticanizzata,
mafizzata, massonizzata, vaticanizzata... da una Roma in cui il candidato
sindaco scelto (insieme a Opus Dei) dai radiovernacolari antagonisti cum
disobbedienti, ha intitolato la stazione della Capitale dello Stato democratico
e laico al più integralista e antiprogressista dei papi, quello del banchiere
furfante e P2 Marcinkus, quello del cardinale Pio Laghi, compare di merende dei
carnefici argentini… dal palazzo del governo di “centrosinistra” (la destra col
silenziatore) dove uno dei due capi più sanguinari del mondo, che emula le
persecuzioni subite dalla sua gente duplicandole, intima al collega-figurante
Prodi di dire che Israele deve essere Stato ebraico (razzista), che i
palestinesi sono solo un problema umanitario e che di cinque milioni di profughi
ci se ne impippa (e lui, a chiappe larghe, esegue)… da uno Stato in cui Prodi
sta a D'Alema com Bush sta a Cheney e tutti quattro stanno al giusto e al vero
come Adriano Sofri sta a Gasparazzo (mitico operaio rivoluzionario di Lotta
Continua)... da una maggioranza di centro-sinistra-sinistra radicale che
inciucia con i delinquenti mafiosi già sgovernanti, che tenta di mandare
impuniti gli amministratori ladri, che manda a morire i
suoi cittadini perchè per i propri mandanti rubino le risorse e la vita a
stranieri innocenti, che intossica tutta la popolazione sovvenzionando, con i
soldi che paghiamo per energie pulite, i criminali dei rifiuti e degli
inceneritori cancerogeni...alla Terra tra i Due Fiumi, a Hammurabi,
Nabuccodonosor, Avicenna, Averroé, Harun Al Rashid...Saddam. Dal fondo toccato e
oltre il quale stiamo scavando, alla luce di un esempio di città del sole
possibile.
"I nemici del nostro paese, gli invasori e i
persiani, hanno scoperto che la vostra unità è una barriera tra voi e coloro che
oggi vi governano. Perciò essi hanno cercato di inserire l'infame cuneo tra voi.
Restate uniti. Avete conosciuto il vostro fratello e leader come conoscete la
vostra stessa famiglia. Sapete che non si è mai piegato ai despoti e, in
sintonia con il desiderio di coloro che lo amavano, è rimasto una spada e una
bandiera. Grande popolo, ti chiedo di preservare i valori che ti permisero di
degnamente operare nella tua fede e di restare un faro di civiltà. La tua unità
ti preserva dalla servitù.
Ti chiedo di non odiare, perchè l'odio non
ti permette di essere equo, ti acceca e chiude tutte le porte al pensiero,
impedisce il ragionamento equilibrato e la scelta giusta. Ti chiedo anche di non
odiare i popoli dei paesi che ci hanno aggredito e di vedere la differenza tra
il popolo e coloro che prendono le decisioni, Chiunque si penta, in Iraq o
fuori, deve essere perdonato. Dovete sapere che tra gli aggressori v'è gente che
sostiene la vostra lotta contro l'invasore, alcuni si offrirono volontari alla
difesa legale dei prigionieri, compreso Saddam Hussein.
Coraggiosi e sacri Iracheni dell'eroica
Resistenza, figli di una sola nazione, dirigete le vostre ostilità contro
l'invasore. Non permettete che vi dividano. Popolo fedele, ti dico addio... Viva
la nostra nazione, viva il nostro grande popolo combattente, viva l'Iraq, viva
l'Iraq, Viva la Palestina, viva la guerra di liberazione e i suoi combattenti.
Saddam Hussein, Presidente e comandante in capo
delle Forze Armate di Liberazione.
Così, dopo la condanna a morte per impiccagione,
colui che, profetico, nel 1991 dichiarò l'inizio della "Madre di tutte le
battaglie". Dopo le dichiarazioni di vittoria di due presidenti, con parate a
New York e celebrazioni en travesti sulla portaerei, la madre di tutte le
battaglie ruggisce più che mai. Chi era che ridacchiava quando Saddam, nel 1991,
parlò della “madre di tutte le battaglie”? E chi parlava del “pagliaccio
iracheno” quando il ministro dell’informazione di Baghdad, con i carri armati
dei barbari alle porte, annunciava che Baghdad “sarà la tomba degli americani”?
La Resistenza, guidata dagli uomini di Saddam, ne uccide ora cinque al giorno
(versione ufficiale che occulta i morti senza nome, quelli senza cittadinanza
Usa, come gli immigrati clandestini dal Messico e quelli tra i 100mila mercenari
privati) e controlla trequarti del paese. E sono passati più anni di quanti ce
ne vollero per liquidare Hitler e la Germania. Ma Saddam non era Hitler. Hitler
è quell'altro, quello che sta a Cheney come Prodi sta a D'Alema e a Montezemolo.
Fu vera gloria? Ai posteri / l’ardua sentenza:
nui / chiniam la fronte al Massimo / Fattor, che volle in lui / del creator suo
spirito / più vasta orma stampar…Tu dalle stanche ceneri /
sperdi ogni ria parola: / il dio che atterra e
suscita, / che affanna e che consola / sulla deserta coltrice / accanto a lui
posò.
(Alessandro Manzoni)
Ho visto in Tv l’abbagliante Apollo di Vejo,
quello etrusco del VI secolo prima della catastrofe, quello che in veste merlata
incede a testa alta e col sorriso, come se fosse portato dal vento, chissà se
verso una sposa, verso il suo popolo, o verso la morte. I grandi ci vanno così.
E così, come ce lo hanno materializzato le sue parole di amore e di lotta e il
suo comportamento di combattente indomito, ci va Saddam Hussein. Avete visto
Saddam nei rari flash tv che filtravano dal verminaio
occupazional-collaborazionista. Un Saddam segregato, aggredito, torturato, con
gli avvocati e i testimoni a difesa che gli venivano assassinati uno per uno. Un
Saddam che ha esploso in faccia ai suoi boia, ai boia del mondo, l’invincibile
forza del martire incorrotto, vessillo nei secoli per chi resiste e manda avanti
questa baracca sfondata chiamata Pianeta Terra. Vi auguro che abbia fatto
germogliare un dubbio nelle vostre granitiche certezze sul "boia di Baghdad".
L'Apollo di Vejo è certamente un dio. Ed è forse vero che dio ha creato l'uomo
“a propria immagine e somiglianza” (lo sapete dalla bibbia che, però, ha
scopiazzato da tutti). E l'uomo che oggi mi pare più somigliante a quanto gli
dei si erano proposti impastando argilla è proprio Saddam. Retorica? Ma pensate
a quella dei diffamatori, quelli dei “dittatore sanguinario”, del “tiranno
criminale”, del caldaroliano “lapidatore di donne”, il “massacratore del proprio
popolo”. Pensate alla retorica vigliacca e complice dello stivale sinistro
dell’imperialismo, l’immondo movimento della pace che invoca un’ONU manutengolo
di assassini seriali, insieme ai partiti moralmente putrescenti che, galoppando
alla Bertinotti o strisciando (vero “sinistra del PRC?), vendono, per trenta
denari, all’imperialismo una copertura di melma. E pensate, dopo aver visto
l'Apollo, ad altre facce: il senile farfugliatore mortadelliano agli ordini di
Olmert, il velista sottocosta con i baffini del disprezzo cosmico, mozzo
dell'Opus Dei e capomandamento della Nato, Fassino, Rutelli, Berlusconi, Bossi,
Biondi, Merkel, Blair, Bush. Veltroni, il sempre più vespizzato e avariato
Bertinotti. Quale dio ha mai creato costoro? Non certo l’Apollo di Vejo. Semmai
sono scaturiti dal pennello allucinato di Hyeronimus Bosch... Ho la netta
sensazione che una delle angosce più forti da me sofferte in una vita
intrecciata di politica, professione e tutto il resto, sia da decenni quella per
la mostruosamente ingiusta e bugiarda diffamazione del presidente iracheno da
parte di chi la dovrebbe sapere più lunga. Subito seguita da quella, appena meno
virulenta, di Slobo, o di Fidel. Una satanizzazione che possiamo dare per
scontata tra coloro che a muso duro ci combattono e dai quali, a partire da
Costantino e dal primo papa, nulla ci aspettiamo. Una diffamazione tanto più
esasperante poichè prodotto di scarto dell'intelligenza politico-professionale
di tanta sinistra, quasi tutta. E i sinistri che non ci cadono, magari non
fanno i corifei della balle galattiche su Saddam, ma, audacemente, tacciono.
Come tace fragorosamente il papa, pronto a sciogliersi in sdegno e pianti su
embrioni da mezz’etto e agonizzanti liberati, appena levati gli artigli dal
corpo di Piergiorgio Welby,. Papa che pure farfuglia banalità di pace e amore
(ma sottende nequizie, d'intesa con un'intera classe, sempre quella, di
monatti).
Chi controlla il passato controlla il futuro.
Chi controlla il presente controlla il passato
(Gorge Orwell)
I BOIA E GLI "SCIACALLI"
Che fossimo preda di orridi serialkiller
psicopatici, USraeliani con tutti i loro sicofanti europei e i loro ascari nel
Terzo Mondo, non c'era bisogno della barbara esecuzione di Saddam a
dimostrarcelo. Più oscena è la turpitudine compunta e finta addolorata di coloro
che, nella politica e nei media, ottusi e servi più che mai, deprecano la
condanna a morte di questo grande eroe della resistenza umana. Eroe al cui
martirio hanno incessantemente lavorato confermando - e rilanciando tra masse
disinformate del fatto che Saddam lottava per tutti noi - l'immane costruzione
di menzogne fabbricata da chi, correttamente, aveva temuto - e sempre più dovrà
temere - nella figura del grande statista e leader della rinascita araba la
nemesi dell'imperialismo capitalista e colonialista, l'esposizione della fetida
natura della "civiltà occidentale". Da farabutti bulimici di arricchimenti che
s'inventano un terrorismo islamico per mimetizzare i propri crimini razzisti e
genocidi, dalle Torri Gemelle ai mattatoi in giro per il mondo, dalla tortura
legalizzata allo sterminio sociale, dal nichilismo culturale alla devastazione
planetaria, da diritti umani e democratici disintegrati da truffe elettorali
ormai generalizzate, al sequestro del pensiero e della parola dell'intero genere
umano, nulla di diverso c'era da aspettarsi. Quello che sconvolge, indigna oltre
ogni misura tollerabile, è la complicità con questi abominii di sinistre
fetecchie alle quali i popoli e le classi della speranza e della lotta avevano
affidato la verità, la liberazione, la vita.
Saddam è stato condannato per la strage di 148
iracheni colpevoli di aver attentato alla vita del capo dello Stato. Strage?
Almeno un quinto dei presunti uccisi è tuttora in vita. Molti altri sono
deceduti di morte naturale negli anni che vanno dal 1982 ad oggi. E nessuno s'è
preso la briga di andare a vedere le carte. Carte che raccontano invece come
quegli attentatori, mercenari prezzolati dal nemico quando l'Iraq si difendeva
dall'aggressione persiana finanziata da Israele e Usa, fossero stati processati,
con pieni diritti alla difesa, per ben tre anni? Non ricordate i finanziamenti
ai terroristi contras scaturiti dalla vendita di armi israeliane a Khomeini? Non
avete visto negli archivi di Washington gli annuali stanziamenti a Tehran da
parte del Congresso? Avete visto una sola arma Usa in mano alle truppe irachene
nelle immagini delle due guerre del Golfo? Vi siete scordati le provocazioni
armate di Khomeini nell '80, la modifica unilaterale delle frontiere concordate,
l’infiltrazione di migliaia di provocatori tra gli sciti, la sua minaccia di
chiudere all'Iraq i vitali Stretti di Hormuz proprio quando Israele e
l'Occidente erano in difficoltà per la creazione voluta da Saddam di un Fronte
del Rifiuto arabo contro l'inciucio di Camp David del rinnegato Sadat con il
terrorista Begin? Non vi dice niente il fatto che, oggi, i persiani coronano il
loro sogno di frantumare e divorare l'Iraq in perfetta cogestione con gli
invasori occidentali? E continuate a ripetere, all'unisono con gli stragisti
della loro gente dell'11 settembre, di Londra, Madrid e di tutto intero il
terrorismo "islamico", che a Halabja Saddam gassò i curdi, la propria gente,
quando tutti i servizi segreti del mondo, Cia in testa, vi ripetono che fu il
cianuro iraniano a piovere su quei disgraziati, cianuro che l'Iraq non ha mai
possseduto e chissà chi l 'aveva fornito a Khomeini. Quel Khomeini, promotore di
un oscurantismo che avrebbe fornito alle elite cannibalesche occidentali il
nemico che gli avrebbe permesso di far rinascere un colonialismo sconfitto dai
popoli. Quel Khomeini, ospitato e nutrito in Europa, giunto a Tehran su un aereo
statunitense perchè impedisse che al fantoccio Shah succedessero le forze
politiche comuniste e patriottiche che lo avevano abbattuto?
C’è chi nasconde i fatti
perché non li conosce, è ignorante, impreparato, sciatto e non ha voglia di
studiare, di informarsi…c’è chi nasconde i fatti perché non vuole rogne e tira a
campare barcamenandosi… c’è chi nasconde i fatti perché altrimenti non lo
invitano più in certi salotti…c’è chi nasconde i fatti perché contraddicono la
linea dell’editore…c’è chi nasconde i fatti perché quelli che li raccontano se
la passano male…c’è chi nasconde i fatti anche a se stesso perché ha paura di
dover cambiare opinione…c’è chi nasconde i fatti perché altrimenti poi tolgono
la pubblicità al giornale… c’è chi nasconde i fatti perché altrimenti è più
difficile voltare gabbana quando gira il vento… c’è chi nasconde i fatti perché
il coraggio uno non se lo può dare…
(Marco Travaglio, che però farebbe bene
ad applicare il suo bisturi anche agli assassini seriali di Tel Aviv)
Dagli abissi, a volte pozzi neri, della loro
ignoranza, malafede, servilismo, ributtante opportunismo, del loro gongolante
brunovespismo, questi cialtroni, spurgo di una tradizione conformista e ipocrita
inculcatoci da due millenni di imposture e violenze vaticane, arricciano il naso
sull'esecuzione mentre portano sulle spalle la piena responsabilità di averla
agevolata, quella e tutte quelle che stanno eliminando dalla faccia della terra
popoli di troppo, grazie a una collusione fatta di scimmiottamenti delle
demonizzazioni e, peggio, di coltellate alla schiena di chi non assume, a Bush
piacendo, il suicidio della specie sotto forma di "non violenza".
Cari Tommaso di Francesco, signora Mariuccia
Ciotta e solitamente bravo Danilo Zolo del "manifesto", siete i capifila là dove
casca l’asino (da Sofri al “terrorismo”, dalla Jugoslavia all’11 settembre,
irresponsabilmente e vilmente avvallato nella megafrode dei delinquenti di
Washington) dell’armata arlecchina di grilliparlanti cerchiobottisti e dunque
correi, che si stanno mangiando quanto resta della residua credibilità (della
sciagurata connivenza del nonviolento, ma filoisraeliano "Liberazione" non
mette neanche più conto parlare)
Perdete lettori? Forse perchè qualcuno trova ormai
insopportabile la vostra compunzione pietista e legalitaria sulle nefandezze di
una pagliacciata processuale senza prove, con testimoni d'accusa mascherati, con
testimoni e avvocati di difesa trucidati, con il filo diretto tra i microbi
giuridici in aula e i massacratori Usa del loro popolo, che dettano gli abusi
dal santuario della Zona Verde. Pensate di esservi fatti politicamente corretti
quando avete denunciato l’ovvio? Fa schifo quando sull'altro piatto della vostra
bilancia, fintobuonista e sconciamente ipocrita, scaricate i macigni delle
falsità condivise con i padroni, a partire da quell'"alleato degli americani"
che avete la compulsione a ripetere, senza mai esservi documentati. Così la foto
di Rumsfeld che, nel 1982, stringe la mano a Saddam, diventa la prova provata
della turpe intesa tra il “finto nazionalista arabo antimperialista” e la
criminalità organizzata di Washington. Una foto! T.d.F ne deduce che "quel
regime non avrebbe mai prosperato senza il sostegno degli Stati Uniti che
all'epoca dei crimini contestati a Saddam, l'uccisione di 140 sciti (148, De
Francesco, 148!) a Dujail e il massacro di migliaia di curdi nella risposta alla
rivolta dei curdi israelo-amerikani, erano i primi alleati del rais di Baghdad”.
L'ottimo giornalista del "manifesto", quello con
l'altra coazione a ripetere infamie quando gracchia di "contropulizie
etniche in Kosovo, avallando ancora, con tutta l'abbagliante evidenza contro, la
menzogna della pulizia etnica fatta prima dai serbi, gareggia addirittura con
Bush e Colin Powell (quello del 5 febbraio 2003 all'ONU ridicolizzato dal
mondo), in protervia di inganni: Rumsfeld, mentre stringeva la mano al rais,
dall'altra faceva arrivare al regime "armi letali di distruzione di massa, gas e
armi chimiche, armi e sistemi logistici". E' stata l'attenta professionalità di
questo canarino da salotto mediatico a trascurare i documenti che rivelano come
Rumsfeld fosse andato per chiedere a Saddam di riaprire l'oleodotto
Kirkuk-Haifa, onde alimentare la pandemia bellicista israeliana, ottenendo in
cambio una linea Usa meno squilibrata a favore dell'ayatollah persiano? E che
dimostrano che Saddam respinse la richiesta e mandò a casa il futuro mostro
della tortura con le pive nel sacco? E poi vai con il "tiranno", con le "tante
malefatte, "responsabilità criminale". Finisce, T.d.F. con l'implicito lamento
che Bush padre non abbia, lui, fatto fuori Saddam, tradendo gli sciti nel
frattempo insorti (contro l’unita nazionale e al servizio dell’espansionismo di
Khomeini, ma T.d.F. non lo dice), e corona l'inqualificabile libello (Il
manifesto, 28/12/06) con l'accreditamento dell'autenticità endogena di Al Qaida,
che "esulterebbe della fine del nemico giurato", riconoscimento ormai di
prammatica, nelle tetre pagine del "quotidiano comunista", della balla spaziale
di coloro che, a Langley, Al Qaida l’hanno inventata, e la gestiscono a pro
della futura dittatura USraeliana mondiale. Sì, De Francesco, Al Qaida ha
esultato. Mentre con Bush e Blair si sorbiva il té servitogli dal paggetto
baffuto che cazza le rande.
Nulla di diverso si può dire dell'altro, il
solitamente rispettabile Danilo Zolo: "Gli Stati Uniti hanno sostenuto sul piano
economico, militare e diplomatico quell'aggressione (all'Iran)... Essi si sono
fatti complici di Saddam Hussein non denunciando alcuni crimini gravissimi
commessi dalle truppe irachene: gli attacchi compiuti con l'uso di armi chimiche
contro la popolazione iraniana". Davvero stupefacente. Eppure un certo nome
questo Zolo ce l 'ha. Tanto nome da non aver bisogno di andare a documentarsi,
magari sui comunicati di guerra degli stessi iraniani, oppure di tutte le
cancellerie interessate, con la ripetuta denuncia dei gas iraniani contro gli
iracheni! Non saprà, come il 99% dei nostri “informatori” l’inglese, ma la
traduzione dell’analisi sul New York Times del 31/1/04, che prova la
paternità iraniana dei gas sui curdi, è da anni disponibile in rete. E poi,
davvero curioso questo “alleato degli Usa”, che agli Usa strappa il petrolio e
se lo tiene fino all'ultimo giorno, che sostiene i palestinesi con armi, uomini
e fondi dal primo giorno della rivoluzione fino al 9 aprile, giorno
dell'irruzione dei vandali a Baghdad, che manda in vacca la prima tentata
normalizzazione del Medio Oriente con il Fronte del Rifiuto arabo, che
costruisce a Baghdad il polo di raccolta, coordinamento e mobilitazione di tutte
le forze progressiste, antimperialiste e antisioniste del mondo, non meno di
Cuba. Singolare alleato del loro padrino Usa cui gli israeliani polverizzano
l'unica centrale nucleare civile, proprio mentre Rumsfeld sta per partire per
Baghdad. Lasciamo perdere, ricordiamoci le epigrafi di Travaglio sul giornalismo
italiano.. Questa è gente che ha subito smesso di chiamare mercenari quei
quattro “nostri ragazzi”, professionisti del killeraggio per soldi, finiti in
mano ai patrioti iracheni, che sta zitta davanti alle cerimone e ai monumenti ai
"nostri ragazzi" di Nassiriya. Quelli che, sghignazzando, mitragliavano e
uccidevano centinaia di civili iracheni, fin nelle case, fin nelle ambulanze,
urlando, ebbri dell'educazione fornitagli, "annichilito!" "Operatori
dell'informazione"! Gli stessi daI quali invano ci aspettavamo urla di furore
per la verità e la giustizia al tempo delle aberrazioni processuali di Carla del
Ponte all'Aja e del processo dei macellai istruttori di pupazzi a Baghdad.
I CRIMINI DI SADDAM
Ho amato gli iracheni a ragion veduta. Ho
rispettato e ammirato Saddam Hussein e i suoi compagni per aver visto quello che
ho visto in trent'anni di frequentazioni del paese e del popolo, un popolo
felice, generoso e fiero come lo avevo potuto conoscere a Cuba, forse oggi in
Venezuela. Quei popoli che dal nulla arrivano alla dignità, alla storia. E mi
sarei sciacquato la bocca se mi fosse scappata la parola ignorante, stolta,
eurocentrica, saccente, di "dittatore", quando sapevo benissimo che quella forma
di governo era l'unica, nel contesto dell’assedio costante dei “cani da
guerra” , che poteva assicurare benessere e sovranità. Dittatore da che
punto di vista? Nella valutazione di chi? Di noialtri che sguazziamo passivi tra
liste elettorali blindate, dettate dai capibastone partitici a loro volta
obbedienti ai padrini confindustriali, clericali, mafiosi e massonici, tra
campagne elettorali sostenibili solo da chi ha dotazioni o sovvenzioni
milionarie, tra brogli modellati dall'esempio del "comander in chief"
idiota e assassino, tra diritti civili che annullano il conflitto tra
sfruttatori e sfruttati nei depistanti deliri di genere e transgenere, tra
diritti umani che non vedono masse di incazzati correre a staccare la spina a
chi è già mille volte morto di dolore, tra pacifisti che menaguerrescamente si
seccano dei frastuoni delle Frecce Tricolori, ma "riducono il danno" avallando
spedizioni "antiterroristiche" di sterminio di popoli, dal Libano
all'Afghanistan, alla Somalia e al Darfur, tra antimperialisti ernestini che,
pateticamente mugugnando, votano per la rivincita colonialista voluta da chi nel
grande '900 se l'era presa nel culo? Ma che titoli abbiamo? Che cosa ne
sappiamo dei rapporti sociali, culturali, storici di popolazioni che, per
sopravvivere, devono colmare in brevissimo tempo il ritardo nei confronti di chi
li vuole fare fuori e che, soprattutto, hanno potuto per millenni, sotto
tirannie assolute, romane, mongole, bizantine, britanniche, coltivare un minimo
di identità e autonomia grazie a un ordine tribale che assegnava, in mancanza di
altre possibilità di autodeterminazione, al più valido, al più autorevole, al
più stimato dei membri, la potestà di gestire la società negli spazi ignorati
dall’impero?
E allora io ho gli elementi per sapere per quali
crimini è stato processato e assassinato Saddam. Eccoli. Segnateli, Tommaso De
Francesco. O sennò copiali dai libri di storia e dai rapporti ONU. Per aver
cacciato con due rivoluzioni il dominio britannico, primo gassatore degli
iracheni con Churchill nel 1922; per aver costruito una nazione in un paese
lasciato dagli inglesi senza ospedali, senza scuole, senza nome; per aver
opposto ai vassalli feudali arabi dei dintorni un modello sociale basato
sull'equa distribuzione della ricchezza, sull'eguaglianza, sulla dignità senza
poveri e senza miliardari; per aver nazionalizzato il petrolio, linfa vitale
dell suprematismo giudaico-cristiano bianco; per aver sostituito l'euro al
dollaro; per aver resistito all'obnubilazione della tirannia religiosa persiana;
per aver alfabetizzato un popolo che, sotto gli inglesi, era felice di vivere
senza leggere e scrivere; per aver fatto diventare qualsiasi ragazzo lo volesse
uno dei migliori medici, ingegneri, chimici, letterati, agricoltori del Terzo
Mondo; per aver reso obbligatoria e gratuita l'istruzione fino alla maturità e
gratuita fino all'ultimo giorno di università, tanto che l’ONU proclamò quello
iracheno il miglior sistema educativo dei paesi in via di sviluppo; per aver
garantito una sanità gratuita di altissimo livello a 25 milioni di iracheni e a
tutti gli altri che fossero venuti a goderne; per aver dato alle donne una legge
di parità e un ruolo raggiunto nemmeno nei paesi cosiddetti sviluppati; per aver
concesso ai curdi , primo tra tutti i paesi che li albergano, l'autonomia,
l'autogoverno, una lingua ufficiale che tutti gli iracheni dovevano studiare,
alla faccia dei capiclan narcotrafficanti che, istigati e pagati da Israele e
gli Usa, come in Kosovo massacravano i rappresentanti dello Stato e gli arabi
insediati dalle loro parti (la repressione della rivolta di Anfal, per la quale
Saddam veniva pure processato nella propaganda occidentale, avrebbe causato
180.000 morti: non si sono mai trovati); per aver governato in coalizione con il
Partito Comunista fino a quando questo non si è schierato con Khomeini, su
ordine di Brezhnev, come oggi è schierato con i fantocci su ordine di Bush; per
aver utilizzato la ricchezza dell'Iraq industrializzando il paese, lavorando per
l'indipendenza alimentare attraverso la riforma e l'industrializzazione agraria;
per aver distribuito gratuitamente a tutti i contadini, oltre ai macchinari,
frigoriferi e televisori, onde imporgli dittatorialmente di bere acqua potabile
e fresca e impedirgli di dormire presto la sera; per non aver intascato una lira
dei progetti governativi, per aver proibito ai suoi funzionari di avere conti
all’estero; per aver spedito medici, insegnanti e ingegneri iracheni nei paesi
arabi per assisterli nello sviluppo e per avere difeso questi paesi
dall’espansionismo persiano con il prezzo di centinaia di migliaia di caduti;
per aver respinto la richiesta degli Usa (visita di Rumsfeld) di riattivare
l’oleodotto Iraq-Israele, di riconoscere lo Stato ebraico e di permettere
l’installazione di basi Usa in Iraq; per aver costruito in pochissimi decenni
un paese sovrano, equo, benestante, con piena occupazione e servizi sociali
senza paragone, polo di riferimento per tutto il fronte progressista e
antimperialista arabo e internazionale; per non aver mai rinunciato al destino
storico dell’unità araba; per aver appoggiato fino al 9 aprile 2003 la
resistenza palestinese attraverso il sostegno finanziario alle famiglie dei
martiri; per aver resistito senza mai piegarsi a due aggressioni e a un
embargo eurostatunitense genocidi, costato due milioni di morti, di cui 500.000
bambini; per aver dato al mondo, durante le fasi della detenzione sotto
tortura e del processo, un esempio di coraggio, di incredibile forza morale, di
dignità; per aver fornito la motivazione, i mezzi, la forza ideologica a una
resistenza che sta sconfiggendo la più potente e feroce coalizione di criminali
di guerra di ogni tempo; per essere stato e continuare a essere il simbolo di un
fronte mondiale di popoli e individui in lotta contro le barbarie.
Saddam è morto, ma, davvero, vive e lotta con noi.
Il suo retaggio gli sopravviverà e trionferà, alla faccia dei planeticidi di
ogni risma.
UNA MAGGIORANZA SCITA?
Vale la pena riandare alle giustificazioni
avanzate per la liquidazione dell’Iraq e del suo governo. Le patacche – armi d
distruzione di massa, Al Qaida, democrazia da portare – le conosciamo (questi
vorrebbero portare la democrazia anche agli Aztechi e Carlo Magno). Ma non vi ha
anche convinto fino alla totale passività l’affermazione che gli sciti,
discriminati e perseguitati dal governo di Saddam, fossero la grande maggioranza
in Iraq? Non avete forse imboccato alla stessa maniera con cui vi hanno fatto
trangugiare la bubbola della maggioranza del 90% di albanesi in Kosovo (erano,
prima dell’unica pulizia etnica, non più di 900.000 su 1.800.000, per
metà immigrati dall’Albania sospinti da un lungimirante Henver Hoxa)? E in
difesa delle maggioranze oppresse e escluse si deve pur intervenire, no? Salvo
per quella palestinese (77% nel 1948). Ecco, la storia della “maggioranza
scita”, da restaurare nella sua posizione di diritto, era forse la scusa più
universalmente accettata, anche a sinistra. Solo che era falsa. Ecco i dati –
visto che a priori non si deve credere ai censimenti sotto Saddam - delle
elezioni parlamentari e della ricerca londinese dell’Al Quds Press Research
Center. Demografia: Arabi, 82-84%, curdi, turcomanni e altri 16-18%. Confessioni
musulmane: sunniti 60-62%, di cui arabi 42-44%, di cui curdi e turcomanni
16-18%; sciti 38-40%, di cui curdi e turcomanni 2-4%. Elezioni del 31/1/05:
aventi diritto al voto 15.450.000, votanti 8.456.266. Iracheni, quasi tutti
sunniti, che hanno boicottato il voto 6,693,734 = 46%. Secondo l’Autorità
Provvisoria votarono il 95% di sciti (minacciati di Fatwa da Al Sistanti se non
avessero votato) e il 98% dei curdi. Voto per il blocco scita 26,3%. Partito
Comunista collaborazionista 69.920 voti, sunniti collaborazionisti di Al
Pachachi 23.302, blocco curdo 14%. Nelle successive elezioni parlamentari del
15/12/05 il blocco scita ha registrato il 32,2 %. Cifre, inoltre, da porsi sullo
sfondo di lampanti brogli constatati universalmente, con camion pieni di schede
“votate” in arrivo dall’Iran. Ha rifiutato il voto il 57,8%. I calcoli che
originano da questi dati danno una popolazione di sunniti al 60-62% (arabi,
curdi e turcomanni), di sciti al 38-40%. Cade così un altro pilastro della
leggenda democraticista che ha visto “il manifesto” e co. affiancati agli
aggressori. Se troverò il tempo, vi darò poi i dati che comprovano la presenza
paritaria delle minoranze nell’amministrazione Saddam, dal vertice in giù,
compresi il vicepresidente, il presidente dell’Assemblea Nazionale e i membri
del Comando del Consiglio della Rivoluzione.
LE SINISTRE VERNACOLARI, ARLECCHINE E
CALUNNIATRICI
A novembre l’agenzia e
associazione Infopal è riuscita ad organizzare, nientemeno che in una sala del
Senato, un’ affollata assemblea sulla Palestina alla quale sono intervenuti i
più qualificati sostenitori della causa palestinese e nella quale sono state
denunciate con forza documentale gli aspetti orripilanti della colonizzazione e
del genocidio operati da Israele contro il popolo palestinese e, dai ”cani da
guerra” occidentali, contro quello iracheno. Una giornata memorabile. Pochi
giorni dopo, in un locale privato di notevole prestigio e costo, viene allestita
un’altra giornata per la Palestina.
Gli organizzatori sono quelli del corteo del 18
novembre, i vernacolari di Radio Città Aperta e della Rete dei Comunisti, che
all’epoca delle elezioni amministrative di primavera avevano tentato di
convogliare l’autentica sinistra antagonista, Forum Palestina compreso, in una
lista per Veltroni sindaco. Già quel Veltroni. Quello dell’indissolubile
complicità con Israele e con la lobby filoisraeliana in Italia, quello dello
sgoverno senza precedenti della capitale, quello delle manifestazioni vippiste e
fuffarole e del degrado dei servizi e delle periferie, quello del Partito
Democratico amerikano, quello del “non sono mai stato comunista poiché il
comunismo è incompatibile con la libertà”, quello della stazione Termini
rinominata al papa della destabilizzazione e reazione (sul modello di
quell’altro campione comunista, Nichi Vendola, governatore della Puglia, gay
adoratore di un Vaticano ammazzagay, privatizzatore delle acque e liquidatore di
chi le voleva pubbliche e titolatore dell’aeroporto di Bari allo stesso papa da
crociata). Il bilancio del loro exploit elettorale al servizio del sindaco che
ne finanzia la radio? Lo 0,6% del voto romano. Risultato di una perspicace
intelligenza politica che, successivamente, è stata ribadita nel compitino di
ovvietà superficiali sul Medio Oriente, redatto da un loro luminare “teorico”,
mettendo insieme un po’ di ritagli di giornale. Forum per la Palestina e per
Veltroni? Un ossimoro che non se n’è mai visto uno di più paradossali. Un
ossimoro che spiega l’astuta presa di distanza – successiva agli anatemi dei
sionisti e succubi dei sionisti – dagli ottimi compagni che ottimamente hanno
bruciato i fantocci di chi va in giro distruggendo il mondo e le sue vite. Si
sono ben guardati, i palestinoveltroniani, dal far volare una sola parola – al
di là del rituale appoggio “ai popoli resistenti”- sulla Resistenza irachena,
in coerenza con quella prudente ambiguità che ha lasciato praterie politiche
alle più improprie e spurie delle associazioni bonsai italiane. Non solo.
Neanche l’argomento dei quattrocentomila palestinesi dannati della Terra nei
campi del Libano, o dei cinque milioni seminati nel mondo, è stato sfiorato e,
tanto meno, quello dei 40.000 palestinesi profughi dal ‘48 in Iraq, prossimi
all’estinzione e alla mercè delle squadracce iraniano-scite del doppiogiochista
Moqtada al Sadr, collaborazionista nel governo mercenario, stragista di iracheni
resistenti. Ne sono rimasti 15.000 nel bel quartiere per loro costruito da
Saddam, superstiti di una comunità espropriata, sterminata o cacciata dagli
sgherri di Moqtada e dei suoi compari
“iraniani”, dagli squadroni della morte di “Dawa”
e “Sciri” al “premier” Al Maliki. Gli altri sopravvissuti, o sono riusciti a
riparare in paesi vicini, o sono accampati senza tende, viveri, medicinali,
nelle intemperie invernali, nella terra di nessuno tra Iraq e Siria.
Un’emergenza pari a quella determinata a Gaza dalla coppia sionista-nazista
Olmert e Lieberman. Vicenda che non competerebbe al Forum Palestina? Ma i
vernacolari, che riflettono a sinistra tutte le qualità di una piccola borghesia
burina, tanto incolta quanto autoreferenziale, che ci infligge quella “classe
politica destrosinistra” in lotta di classe contro tutti noi di cui parla Gianni
Vattimo, non solo tacciono certe cose urticanti, altre le dicono, chiare e
sporche.
INFOPAL E LINGUE BIFORCUTE
Scendiamo nella cronaca.
Quella misera delle nostre sinistre in disarmo.. C’è stata, nello strascico dei
due eventi per la Palestina una sconcertante polemica. Infopal, alla quale
rendiamo merito per essere la più informata e puntuale diffonditrice di notizie
nascoste sul colonialismo israeliano, ha denunciato di essere stata accusata da
ambienti vernacolari di essere finanziata da Hamas. Identificandosi tali
ambienti con questa esecrazione, con coloro che a una forza resistente
preferiscono i quisling corrotti e collaborazionisti di Fatah, protetti da
milizie addestrate e finanziate dagli assassini del loro popolo, Sion e Usa.
Respinta l’accusa, i
compagni di Infopal ne hanno sottolineato l’assurdità assoluta. Potete
immaginarvi Hamas, cui la civiltà occidentale, europea e italiana compresa, nega
la possibilità di governare da maggioranza democraticamente – questa sì –
eletta, affamando i palestinesi, cui i ladroni di Stato israeliani rapinano i
fondi dalle banche e dalle tasche dello stesso Primo Ministro, che non ha
neanche un soldo per pagare dipendenti, medici, ospedali, scuole, cibo,
infrastrutture vitali distrutte da Israele, potete immaginarvi che vada a
finanziare in giro per il mondo piccole agenzie di notizie e associazioni tenute
insieme dal concorso di volontari a costo di pesanti sacrifici? Il Forum
Palestina, chiamato in causa dai diffamati, ha sdegnosamente e perentoriamente
smentito di aver detto quelle cose. Vorremmo tanto potergli credere! Ma in
occasione dell’iniziativa del Forum, il 6 dicembre, davanti al Centro Congressi
di Via Napoli in Roma, il sottoscritto accompagnato da testimoni si è sentito
dire da esponenti del Forum: “Infopal è la voce di Hamas”. E poi: “Infopal è
finanziata da Hamas”. Ci vengano ora a smentire. Devo fare i nomi?. Ma fosse
anche per assurdo vera l’affermazione, quella denuncia avrebbe un carattere
infame e delatorio, vista la qualifica data a Hamas di “organizzazione
terrorista” da tutto l’establishment, veltroniano e non, di questo paese. Fosse
anche vero, come è vero che la Terra è piatta e che Veltroni merita i voti dei
filopalestinesi, sempre meglio finanziati da Hamas che da Veltroni.
CALUNNIA, CALUNNIA,
QUALCOSA RESTERA’
Quando ti impegni, accanto
agli integralisti di destra (Arturo Michelini), per soluzioni amerikanamente
pornografiche al governo della capitale, e poi marci e comizii per la
Palestina, è ovvio che non sei molto attendibile e rimani in quattro gatti. Alla
base di questa patologia, secondo recenti ricerche, sta un virus cui gli
scienziati hanno dato il nome CVC-M. E’ il virus della diffamazione dei
“concorrenti” come strumento di autopromozione. Costringe chi ne è colpito a
urlare in tutte le direzioni “spie”, “pagati”, “venduti”, “questurini”,
“pericolosi”, “squilibrati”. E’ infermità perniciosa, porta alla quarantena. E
allora hai voglia ad allestire noiosi seminari di una compagnia di giro
accademica avvitata su se stessa e autoperpetuantesi nella totale indifferenza
della politica e della storia.
Avessimo avuto un Saddam.
Certo, era un duro. Lo erano anche Robespierre e Lenin, Nasser e i Tupamaros,
l’IRA e i partigiani italiani. Li hanno costretti ad esserlo.Lo era Arafat, fino
a quando, a Beirut, non ha chiuso una rivoluzione, chinato il capo e messo la
coda tra le gambe all’ombra dei cannoni atlantici e del terrorismo israeliano. I
fanatici dei diritti individuali ricordino che i diritti collettivi sono fatti
per tanti individui. La rivoluzione non è un pranzo di gala.
E noi oggi stiamo come
d’autunno sugli alberi le foglie. O si fa una rivoluzione, o si muore.
Israele ha esultato
all’impiccagione del suo più grande nemico, quello dell’ultima rivoluzione
vittoriosa del Grande Secolo del ’17. Già solo per questo dovremmo piangerlo
tutti.
Fulvio Grimaldi mercoledì 10
febbraio 2010
IRAN: UNA
LEZIONE AGLI UTILI IDIOTI
Fulvio Grimaldi Iran,
rivoluzione verde
Il
caso dello sterminio eugenetico dei sefarditi
(2 settembre 2004) Fulvio Grimaldi
SLOBO VIVE LA
SINISTRA ITALIANA RANTOLA di Fulvio Grimaldi