Spazioamico

RASSEGNA STAMPA

PRESENTAZIONI

ATEI  e AGNOSTICI

MEMORIE

                                             RASSEGNA STAMPA     ATEI E AGNOSTICI   laicità e relativismo

STEFANO  RODOTA'   30 maggio 1933 – 23 giugno 2017

Dibattito sul laicismo
 
La libertà della menzogna
 
La politica debole e l´offensiva della Chiesa

Occorre ridisegnare la Carta dei diritti della persona

La laicità dopo il caso Sapienza

La Repubblica 8.11.2005

Rodotà

Dibattito sul laicismo

Religione e natura come rifugio da un mondo senza cuore, come unica via per fondare certezze e recuperare identità perdute. Questo orientamento si diffonde, definisce posizioni politiche e vuole ispirare la legislazione. Sta nascendo uno scontro di civiltà all’interno dello stesso Occidente? Se si apre un grande libro, quello dedicato nel 1935 da Paul Hazard alla “crisi della coscienza europea” tra Seicento e Settecento, si coglierà senza fatica (se non quella della lettura) il modo ricco e multiforme con il quale l’Europa tutta riprese la sua “recherche éternelle”, senza lasciarsi impaurire dal mondo, senza richiudersi in antiche certezze, cosciente che il solo appello alla Cristianità non poteva offrirle, come altre volte, la via d’uscita dalla crisi. “Che cos’è l’Europa?” si domanda alla fine Hazard. E dà una risposta che, oggi più che ieri, merita considerazione: “Un pensiero che mai si accontenta”. Non a caso aveva ricordato le istruzioni che uno scrittore secentesco, Trotti de la Chétardie, dava al “giovin signore”:

“Se siete curioso, viaggiate”. Conoscenza degli altri, apertura continua degli orizzonti, come condizione della stessa sopravvivenza politica, culturale, morale. Su questa radice storica si fonda la sua ineliminabile laicità, alla quale ci richiamava Eugenio Scalfari nel suo intervento su “Repubblica” del 7 novembre 2004. L’Europa sta cli nuovo cercando se stessa, e manifesta l’intenzione di misurarsi con un “nuovo ordine delle cose” che gli schemi del passato non riescono più a contenere. Non può giovarle la pigrizia intellettuale, se vuole uscire dalla nuova crisi che la sua coscienza sta attraversando. Sì che, piaccia o no, l’ambizione di scrivere una Costituzione in tempi così incerti è un atto di coraggio, o almeno il segno di una consapevolezza. Più che un punto di partenza, il Trattato costituzionale è una sfida a se stessa di una Europa che non può pensarsi fuori del suo futuro. Ma può un’Europa senz’anima e senza identità, senza valori forti, cimentarsi con questa sfida? Questa critica, tutta ideologica, non regge ad una prova dei fatti che proprio la lettura del Trattato costituzionale irrobustisce. Era molto più povera di valori l’Europa di ieri, quella dei trattati di Maastricht, Amsterdam, Nizza, che non riconosceva tra i propri principi l’eguaglianza e la solidarietà, oggi affermati già nel Preambolo della Costituzione e nella Carta dei diritti fondamentali. Qui viene recuperato un aspetto essenziale dell’i1 dentità europea, nel quale si congiungono diritti individuali e legami sociali, qui si coglie il passaggio dall’Europa dei mercati a quella dei diritti, così

smentendo anche il pregiudizio di chi si ostina a dire che la nuova Europa sarebbe segnata da una definitiva caduta nel liberismo. L’idea europea dei diritti, per la convivenza tra individualismo e solidarietà che esprime, costituisce ancor oggi il vaccino più forte contro ogni specie di fondamentalismo. Ancor meno sostenibile è la tesi che descrive una costituzione insensibile ai valori della persona. È vero l’esatto contrario. Non v’è testo costituzionale che affermi con tanta nettezza “il molo centrale della persona”, posta dall’unione “al centro della sua azione”, riconosciuta nella sua inviolabile dignità. Giunge così a compimento una vera “costituzionalizzazione della persona”, tutelata anche contro i nuovi rischi dell’innovazione scientifica e tecnologica dai primi articoli della Carta. Tutto questo vale poco o nulla solo perché non si è voluto dare rilievo esplicito alle “radici cristiane” dell’Europa? Ma questo sarebbe un peccato che accomuna gli autori della Costituzione e della Carta dei diritti ai grandi padri dell’Europa, i cattolici De Gasperi e Adenauer tra gli altri, che, quando nel 1950 si scrisse il Preambolo della Convenzione europea dei diritti dell’uomo, fecero con sobrietà riferimento solo al “patrimonio comune di ideali e tradizioni politiche”. La stessa consapevolezza che aveva indotto il cattolico Giorgio La Pira, nell’Assemblea costituente, a non insistere su un suo emendamento, che avrebbe voluto premettere al testo costituzionale del 1948 la formula “In nome di Dio il popolo italiano si dà la presente Costituzione”. Proviamo a considerare due delle conseguenze che avrebbe prodotto un esplicito riferimento alle radici cristiane. Poiché in molti paesi il Trattato sarà sottoposto a referendum popolare, non v’è dubbio che anche questo aspetto sarebbe divenuto argomento di polemica. Qualche anno fa, Oscar Luigi Scalfaro giudicò un atto di “enorme saggezza” l’aver evitato che su questo tema vi fossero divisioni quando si scrisse la nostra Costituzione. Non si può “far votare su Dio”, aggiunse. La costituzione europea non è indifferente alle “eredità religiose”, ricordate fin dal Preambolo. Stabilisce, anzi, la necessità di “un dialogo aperto, trasparente e regolare” con le chiese. Ha voluto saggiamente evitare che il fattore religioso tornasse ad essere elemento di un conflitto: in questo è, in modo lungimirante, laica. Se, poi, le radici cristiane fossero state elevate a principio costitutivo dell’identità europea, questo avrebbe imposto una ricostruzione dell’intero sistema costituzionale europeo anche in questa chiave. Avrebbe così ricevuto legittimazione l’atteggiamento della Chiesa che sottolinea con forza crescente il dovere dei parlamentari cattolici di subordinare i loro comportamenti alle direttive della dottrina. Da obbligo di fede per alcuni questo sarebbe divenuto, per tutti, obbligo istituzionale. Ogni decisione ritenuta in contrasto con la radice cristiana dell’Unione sarebbe stata sospetta di ifiegittimità. Oggi si enfatizzano i timori del relativismo, di un’Europa non ancorata a valori forti e perciò indebolita nella competizione tra culture e disarmata davanti alla potenza della tecnica, per

invocare la religione come elemento costitutivo
dell’identità e vedere nella natura l’unico baluardo
• contro la “manipolazione” dell’umano. Ma l’im posizion autoritaria di valori non condivisi diviene sempre un pericoloso moltiplicatore di conflitti. La verità è che si stanno confrontando due idee di Europa e della sua costruzione. In una si esprime
insicurezza, fragilità e, spaventati, non ci si rifà alla storia, ma ci si aggrappa al passato, ritrovando nella tradizione religiosa l’unico fondamento.
Nell’altra, storia e futuro si congiungono e si apprestano strumenti “prospettici”. Una costituzione è lo strumento laico di produzione di valori forti e condivisi, adeguati ai tempi che vivremo. Più che pensare in termini di “identità”, dobbiamo pensare alla “sfera pubblica europea”, la cui nascita era stata annunciata daJuergen Habermas nei giorni in cui l’Europa era attraversata dalle manifestazioni contro la guerra all’Iraq, e che oggi si materializza nelle stesse accese polemiche sul Trattato costituzionale e sulle scelte del Parlamento europeo. Sfera pubblica europea vuol dire creazione di un comune spazio pubblico di confronto, dove le diversità che ancora segnano profondamente l’Europa possano riconoscersi reciprocamente, rendendo possibile il rafforzarsi dei valori già individuati dal Trattato costituzionale, tutt’altro che deboli, e la progressiva adozione di politiche comuni. Ma sembra che la discussione, la regola laica del libero confronto, spaventino. Così, prigionieri dei timori, anche giustificati, destati dall’innovazione scientifica e tecnologica, si propone una sorta di alleanza tra natura e religione, identificata quest’ultima come presidio dileggi naturali che la volontà di potenza dell’uomo mai dovrebbe violare.
È una posizione debole sotto il profilo culturale, destinata ad accrescere il rischio di “scontri tra assoluti”, e quindi socialmente dirompente e politicamente perdente. La vicenda della legge italiana sulla procreazione medicalmente assistita è istruttiva. È il caso di una legislazione ideologica, che pretendeva anche di imporre un modello imitativo della natura, e che non ha retto alla prova della realtà. Non è stata solo contestata politicamente. Si è rivelata per molti versi inapplicabile e, attraverso il “turismo procreativo”, è stata subito delegittimata. La propensione a ricorrere alle tecniche proibizioniste si rafforza quando l’innovazione scientifica fa nascere il timore di una “manipolazione” della natura umana. Si propone così di imporre in ogni caso il rispetto della “lotteria genetica”, di garantire che sia• soltanto il caso a governare l’intero processo procreativo, di riconoscere come diritto fondamentale quello ad “ereditare un patrimonio genetico non manipolato”. Ma, invocando questo diritto, e in nome della lotteria genetica, si dovrebbe vietare una terapia genica che elimini il rischio di trasmissione da madre a figlia della propensione a sviluppare il cancro al seno? La più severa legge in materia, quella tedesca sulla tutela degli embrioni, anupette la scelta del sesso per evitare la nascita di bambini con determinate malattie genetiche, con un effetto di rassicurazione che riduce il ricorso all’aborto.

Le forzature ideologiche e le impostazioni astratte non facilitano l’analisi della realtà e la stessa previsione di limiti, dove si rivelano necessari, perché siamo di fronte ad innovazioni che incidono sull’antropologia profonda del genere umano. Anche qui, però, non teniamo gli occhi rivolti al passato. Rendiamoci conto, ad esempio, che imporre il rispetto del “caso”, là dove è stato cancellato dalla scienza, non significa ricostituire “lo stato di natura”, bensì disciplinare in modo socialmente nuovo la libertà e le relazioni tra le persone. Vi è una curiosa versione della fine della storia in questo disperato bisogno di approdo definitivo sui lidi della religione e della natura. Ma non si può cancellare la relazione tra natura e storia, tra natura e cultura. Nè l’Europa nuova, nè un mondo più umano, possono nascere da una regressione culturale.

8 novembre 2004   http://download.repubblica.it/pdf/diario/26042005.pdf

 

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La libertà della menzogna

STEFANO RODOTA

Lo sappiamo. "Ne uccide più la lingua che la spada", "le parole sono pietre", "i cattivi maestri"... Ma il passaggio dalla saggezza popolare, dall´indignazione civile, dal rifiuto culturale alla norma penale è complicato, e può risultare distorcente.

Si può mentire sulla storia?

democrazia e negazionismo

 

Perché è difficile decretare per legge la condanna di opinioni aberranti.

In che modo una società matura deve esercitare il controllo sulle verità storiche?

Hanno ragione gli storici con il loro Manifesto di critica alla proposta del ministro della Giustizia di far diventare reato la negazione della Shoah: un problema sociale e culturale così grave non si affronta con la minaccia della galera. Servono una battaglia culturale, una pratica educativa, una tensione morale.
Che cosa è in gioco? La libertà di manifestazione del pensiero certamente, dunque uno dei valori fondativi della democrazia, affidato a mille testi e mille norme, dal Primo emendamento alla Costituzione americana all´articolo 21 della nostra Costituzione, all´articolo 11 della Carta dei diritti fondamentali dell´Unione europea. Ma siamo di fronte anche a interrogativi che riguardano il ruolo della politica, la distribuzione di poteri e responsabilità tra le istituzioni, la libertà di ricerca, le dinamiche sociali, l´uso corretto dello strumento giuridico. E tutto questo deve essere anche valutato tenendo conto che nel mondo tira una brutta aria di censura, che si coglie subito considerando le molte manifestazioni di fastidio verso Internet, che si ritiene veicolo di contenuti inaccettabili. Se Popper aveva chiamato la televisione "cattiva maestra", molti sono inclini a ritenere che la Rete come maestra sia pessima. Sottolineo questo punto perché l´introduzione di un reato (o di una aggravante) di negazionismo può innescare derive proibizioniste e censorie verso altre opinioni ritenute socialmente non accettabili.
Le critiche degli storici non sono soltanto sacrosante nel segnalare i rischi per tutti di una "verità di Stato", che può tirarsi dietro un´etica di Stato e altro ancora. Sono rafforzate da molti altri elementi, a cominciare da quelli tratti dall´esperienza dei paesi che già hanno introdotto il reato di negazionismo e che, malgrado ciò, continuano a conoscere manifestazioni gravi di antisemitismo e presenze politiche di gruppi variamente espressivi di spiriti nazisti. L´Austria ha condannato David Irving, ma non era riuscita a evitare Haider.
Siamo di fronte a una di quelle misure che si rivelano al tempo inefficaci e pericolose, perché poco o nulla valgono contro il fenomeno che vorrebbero debellare, e tuttavia producono effetti collaterali pesantemente negativi.
Le sole strategie giuridiche valgono poco di fronte a fenomeni che hanno radici culturali e sociali profonde, che non possono essere recise con un gesto formale. L´approvazione di una norma, anzi, può trasformarsi in un alibi o in un diversivo.
Vi è un problema grave, gravissimo come il negazionismo? Ma io ho le carte in regola e la coscienza pulita: ho usato lo strumento giuridico più potente, la definizione di quel comportamento come reato. E quindi avverto meno, faccio diventare secondaria quella che, invece, è la vera strategia di contrasto: l´informazione corretta e incessante nella scuola e fuori, la discussione aperta, i comportamenti politici conseguenti, isolando sempre e comunque quelli che, individui o gruppi, affidano direttamente o indirettamente al negazionismo la loro identità pubblica. Voto in Parlamento una legge e mi salvo l´anima. E poi, se qualche gruppetto intriso proprio di quelle convinzioni mi serve per vincere le elezioni, non esito a farlo entrare nella mia coalizione. La vera lotta al negazionismo passa attraverso la rinuncia al realismo politico, alle sue convenienze e alla tentazione di non condannare alcune manifestazioni perché "minori", attraverso l´intransigenza morale e la responsabile e continua confutazione d´ogni suo argomento. Non servono rimozioni, ma un impegno quotidiano.
Guardiamo alla storia italiana. Non sono stati il divieto costituzionale di ricostituzione del partito fascista, la legge Scelba e il reato di apologia del fascismo a impedire che il fascismo trovasse condizioni propizie per prolungare la propria sopravvivenza. Questo è avvenuto grazie a una azione politica e culturale che ha avuto nell´antifascismo un riferimento forte, che ne ha fatto un valore simbolico e un criterio di valutazione dei comportamenti, isolando soggetti politici ed impedendo anche che i contatti, più o meno velati o sotterranei con alcuni di essi, ottenessero legittimazione pubblica. So bene di dire cose che non sono in sintonia con lo spirito dei tempi. Ma le cose sono andate proprio così. E forse anche gli eredi del Movimento Sociale Italiano dovrebbero essere grati a chi tenacemente li volle fuori dall´arco costituzionale e, così facendo, impedì loro di sentirsi a pieno titolo parte del sistema politico, obbligandoli ad approdare in qualche modo ai lidi della democrazia.
La politica non può allontanare da sé la questione, per di più usando mezzi che rischiano di far apparire come perseguitate persone culturalmente e moralmente condannabili. L´alt agli estremismi non passa attraverso leggi speciali. Lo ha visto bene il rabbino Elio Toaff, con la memoria di chi ha conosciuto i guasti prodotti da questo uso delle norme.
Il Governo e il Parlamento non possono ritenere che il problema si risolva dislocandolo in un´altra area istituzionale, facendolo divenire un affare dei giudici. Vi è una sapiente, e non nuova, schizofrenia istituzionale in tutto questo. Si scaricano sui giudici conflitti sociali e culturali, e poi ci si lamenta che i giudici hanno troppo potere, che "fanno politica". E che altro dovrebbero fare, quando la politica non fa la sua parte?
Né dimissioni della politica, dunque, né sottovalutazione del negazionismo, né paura della libertà. L´impegno nella ricerca, l´interminata fatica della critica, il libero manifestarsi delle opinioni non possono mai essere considerati come un intralcio da rimuovere. Fanno parte della fatica della democrazia. Ricordiamo quello che T. B. Smith non si stancava di ripetere ai suoi concittadini americani: «I mali della democrazia si curano con più democrazia»
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 Stefano Rodotà: Occorre ridisegnare la Carta dei diritti della persona

 

Verso la fine del 1847, quattro mesi prima della pubblicazione del Manifesto del Partito comunista, Alexis de Tocqueville annotava nei suoi Souvenirs: “presto la lotta politica si svolgerà tra chi possiede e chi non possiede: il grande campo di battaglia sarà la proprietà”. Quel conflitto è continuato, ininterrotto, e continua ancora, anche se al centro dell’attenzione non è più la terra, ma piuttosto il vivente e l’immateriale.
Il campo di battaglia si è allargato. È diventato il mondo intero, e abbraccia molti altri diritti. Viviamo in un mondo che si proietta “oltre lo Stato”, dove ritroviamo un “diritto sconfinato”. Sopravviveranno i diritti fondamentali della persona in questo nuovo contesto? Proprio la dimensione mondiale, non accompagnata da istituzioni adeguate, li minaccia. L’irresistibile marcia della tecnica sembra svuotarli della loro funzione di garanzia della libertà e dell’autonomia individuale. La transizione verso il post-umano rischia d’indebolirli nella loro stessa natura, nel loro essere diritti dell’uomo, “human rights”.
Movimenti contraddittori. La globalizzazione allarga anche la scena sulla quale condurre “la lotta per il diritto”. L’innovazione scientifica e tecnologica ha portato ad un allungamento del catalogo dei diritti. L’evoluzione, che si coglie in documenti internazionali e leggi nazionali, induce giustamente a parlare di una “costituzionalizzazione della persona”. E l’attenzione sempre più intensa per i diritti fondamentali modifica i termini della discussione, fa affiorare nuove questioni e nuovi soggetti.
Di questo tema non ci si può liberare con una mossa ideologica o guardando ad una realtà in continuo mutamento con schemi giuridici invecchiati. Non si può ridurre la prei fondamentali sulla scena del mondo ad un tentativo di colonizzazione culturale e politica di chi vive fuori del cerchio stretto dell’Occidente. Non si può ritenere irrilevante la previsione di vecchi e nuovi diritti in documenti come la Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea solo perché non hanno ancora un formale valore giuridico formalmente vincolante.
Lo stesso modo di affrontare criticamente i problemi della globalizzazione si è, almeno in parte, modificato. Al rifiuto radicale (“no global”) si va sostituendo una strategia più articolata: non una globalizzazione attraverso i mercati, ma appunto attraverso i diritti. Un segnale chiaro in questa direzione era venuto dalle parole con le quali l’Unione europea aveva motivato la necessità di una carta dei diritti, sottolineando che questi rappresentano una “condizione indispensabile per la sua legittimazione”. Conosciamo le difficoltà che la costruzione europea continua ad incontrare. Ma quelle parole vogliono dire proprio che essa non può proseguire se continua a legarsi soltanto alla logica di mercato. Senza una vera fondazione nei diritti, l’Europa non continuerà soltanto a soffrire d’un deficit di democrazia, ma addirittura di legittimità. Un problema, questo, che si avverte ormai nel vero spazio planetario unificato dalla tecnologia, Internet, per il quale si è appena chiesta proprio una carta dei diritti.
La tutela globale della persona, dunque, non può fermarsi agli spazi nazionali, ai soli spazi materiali, e neppure al modo abituale di segnare i confini del suo corpo. Anche questo appare sconfinato, con le informazioni che ci riguardano disperse in mille banche dati nei luoghi più diversi del mondo. Di nuovo la Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea può servirci da guida, riformulando le regole sull’integrità fisica e mentale in forme adeguate alle innovazioni scientifiche e tecnologiche e affiancando ad esse un diritto autonomo, quello alla protezione dei dati personali, che dà evidenza e tutela al “corpo elettronico”. Siamo di fronte ad una nuova idea integrale della persona, che ne comprende le tre dimensioni - fisica, psichica, virtuale. Nel mondo mutato, il “doppio corpo” non è più quello rivelato per il re medievale da Ernst Kantorowicz, ma diviene attributo e problema d’ogni persona.
Nuovi spazi, diritti, oggetti. Ma pure soggetti nuovi. Negli spazi giuridici compaiono le generazioni future, portatrici di diritti legati alla biosfera, alle risorse materiali, all’ambiente. E accanto a loro, sulla scena del mondo si materializza l’umanità. Questa è indicata come titolare di nuovi patrimoni comuni, la spazio extra-atmosferico e il fondo degli oceani, l’Antartide e il genoma umano, i siti indicati dall’Unesco; dà il nome al diritto d’”ingerenza umanitaria” e ai “crimini contro l’umanità”. Ma immediatamente pone un problema: chi può parlare e agire in nome dell’umanità o delle generazioni future?
Il rischio di derive autoritarie è evidente, testimoniato dall’uso del diritto di ingerenza umanitaria come nuovo fondamento delle guerre d’aggressione. Un’ombra difficile da dissipare, ma che non può cancellare il fatto che il riferimento all’umanità significa anche limite alla sovranità degli Stati, che non possono impadronirsi di una porzione della luna o dell’Antartide, e ostacolo alla rapacità degli interessi economici che vogliono distruggere un ambiente o brevettare il vivente in qualsiasi sua forma. Si trasforma in impegno di solidarietà dei paesi più ricchi. Si affida a corti internazionali competenti per crimini contro l’umanità. Significa allargamento del principio di precauzione, e creazione di nuovi beni comuni e di nuove possibilità di accedervi. Dietro l’astrattezza della nozione di umanità scopriamo così diritti, obblighi e responsabilità di soggetti concreti.
La questione dei beni comuni è essenziale. Il senso della battaglia, di cui parlava Tocqueville, è profondamente cambiato. Non riguarda soltanto un conflitto intorno a risorse scarse, oggi l’acqua più ancora che la terra. Nella dimensione mondiale assistiamo ad una creazione incessante di nuovi beni, la conoscenza prima di tutto, rispetto ai quali la scarsità non è l’effetto di dati naturali, ma di politiche deliberate, di usi impropri del brevetto e del copyright, che stanno determinando un movimento di “chiusura” simile a quello che, in Inghilterra, portò alla recinzione delle terre comuni, prima liberamente accessibili.
Dobbiamo ripetere che la tecnologia apre le porte e il capitale le chiude? Certo è che intorno al destino di nuovi e vecchi beni comuni si gioca una partita decisiva per l’eguaglianza. Protagonisti di questa vicenda non sono singoli o gruppi. E’ un’entità anch’essa nuova che, mimando la formula “economia mondo” di Immanuel Wallerstein, è stata definita “popolo mondo”. Un popolo mobile, che si aggira nel mondo globale sempre più alla ricerca dei luoghi che più offrono opportunità, in un incessante “turismo dei diritti”, che dalle sue forme più antiche, l’emigrazione e la ricerca d’asilo politico, si trasforma in turismo procreativo o in richieste d’asilo da parte di donne che, se rimandate nel paese d’origine, rischierebbero mutilazioni sessuali.
Sono dunque persone in carne ed ossa che, anche a prezzo di discriminazioni e persecuzioni, si fanno banditori nel mondo di diritti percepiti come parte dell’umanità di ciascuno. Nasce così una carta dei diritti spontanea e diffusa, specchio di esigenze reali, frutto di un ininterrotto dialogo tra culture, e non imposizione dall’alto. Anche con qualche paradosso. Il turismo dei diritti è reso possibile dal fatto che diversi Stati regolano in maniera diversa le stesse situazioni, rendendo possibile l’accesso alle tecnologie della riproduzione o la ricerca sulle cellule staminali che altri proibiscono. La sovranità nazionale come strumento della globalizzazione dei diritti?
Ma vi è chi percorre il mondo per trovare le maglie deboli della rete di protezione dei diritti. Gli antichi “paradisi” fiscali sono accompagnati da quelli che vanificano la protezione di dati personali. Imprese vanno alla ricerca dei luoghi dov’è facile lo sfruttamento dei lavoratori, nulla la tutela dei minori, agevole la sperimentazione dei farmaci sull’uomo. Astuti agenti di viaggio organizzano l’orribile “turismo sessuale”. La prospettiva è completamente rovesciata. La pura logica di mercato aggredisce la persona nei luoghi dove maggiore è la sua debolezza. Si parla di paradisi, si trova l’inferno.
Torna il bisogno di punti fermi di riferimento solidi, di una rinnovata attenzione per dignità, libertà, eguaglianza, solidarietà, nel tempo della tecnica e del mondo globale. Tutto questo evoca un altro soggetto, i giudici e le corti che, in assenza di un governo mondiale, si presentano come quelli che già possono offrire tutele anche in situazioni difficili, ricercando ogni strumento disponibile. Lo stanno facendo quei magistrati che danno più forte tutela ai diritti sociali ricorrendo alla Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea. Di fronte alle debolezze della politica, saranno i

saranno i giudici a promuovere l’Europa dei diritti?

 “la Repubblica”, 29 novembre 2006

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Repubblica 7.marzo.2006

Se lo scontro
di civiltà
è dentro
i nostri confini
STEFANO R000TÀ


Lo SCONTRO di civiltà è tra noi,e in esso si riflette la regressione culturale e politica che affligge le cose italiane, Lo dice l’'incidente”,mille volte annunciato da altri atteggiamenti leghisti, che ha avuto come protagonista l’ex ministro Calderoli. Lo dice il modo in cui è arrivata in Italia la discussione, anch’essa annunciata da tempo, sui diritti in un mondo invaso dalle innovazioni scientifiche,e,tecnologiche, subito,divenuta prigioniera di sempliflcazioni inacceffabili e di violenze ideologiche. Lo dice la lunga aggressione al sistema dei valoti costituzionali, dei quali l’attuale maggioranza ha sempre mostrato di volersi liberare, ben al di là della stessa riforma della seconda parte della Costituzione. E altro,e altro...
Ci aggiriamo tra macerie. E la ricostruzione non sarà facile, a giudicare anche dalla decisione di entrambi gli schieramenti di ricorrere a candidature (ma chiamiamo le cose con il loro nome: elezioni annunciatissime) di persone che trasferiranno in Parlamento intransigenze e chiusure. E' possibile individuare qualche modesta contromossa, che possa riportare nella discussione civiltà e dialogo, rispetto delle persone e della loro libertà?
1) Rinunciare alla nefasta invocazione della reciprocità. Quella che, tanto per fare un esempio, spinge a dire che il musulmano vedrà pienamente rispettate le proprie credenze e pratiche religiose solo quando nel suo paese d’origine vi sarà pari rispetto per i cattolici. Poiche si ama tanto riandare allo Stato liberale, bisogna allora ricordare quel che avvenne negli anni successivi all’Unità,quando si scriveva il nuovo codice civile e Pasquale Stanislao Mancini fece prevalere proprio il principio per cui allo straniero veniva riconosciuta una serie di diritti senza alcuna condizione di reciprocità. Un segno, all’epoca, di straordinaria civiltà, che venne cancellato dal fascismo con il codice deI 1942. Oggi i richiami espliciti o impliciti alla reciprocità sono molto più di un ostacolo posto ai diritti degli altri.(.........)
SONO la negazione di un'idea di  cittadinanza come patrimonio della persona, che ciascuno porta con se indipendentemente dal luogo in cui è nato o dove vive. Sono il segno di una cieca chiusura identitaria, di una contemplazione delle proprie radici che induce a vedere l'altro come estraneo, come entità da tenere lontana, e che perciò favoriscono nuovi conflitti. No alla reciprocità, dunque.

2) Rinunciare all´uso violento della legge e del diritto. È la linea che ha prevalso in questi anni, e che rischia di proseguire nel futuro. Si chiudono porte e si rifiuta di aprirne nuove. Questa è la storia del colpo di mano sulle norme in materia di uso di stupefacenti, della legge sulla procreazione assistita, dell´ostilità ai Pacs e al testamento biologico. La previsione di regole e limiti non trascina necessariamente con sé la trasformazione della legge in strumento per imporre un particolare punto di vista, un´ideologia, per far assumere allo Stato una marcata connotazione etica. Così le leggi diventano strumenti oppressivi o vani programmi, ai quali si cerca di sfuggire, come già fanno le donne che vanno all´estero per ricorrere a forme di procreazione assistita vietate in Italia o coloro che espatriano verso luoghi dove morire con dignità. Una legge che ignora umanità e pietà delegittima sé e il Parlamento che l´ha votata, allontana i cittadini dalle istituzioni. Invece di blindarsi dietro certezze ideologiche, bisognerebbe leggere parole come quelle adoperate, pochi giorni fa, da un giudice francese che ha stabilito che non si dovesse procedere contro la madre che aveva esaudito la volontà del figlio d´essere liberato da terribili sofferenze e di morire con dignità, compiendo così quello che proprio per il figlio rappresentava "l´ultimo atto d´amore". No all´uso violento del diritto, dunque. Ma pure sì ad un ricorso ad esso che riconosca le ragioni della persona, e la renda a un tempo più libera e più responsabile. 3) Basta con la guerra sull´embrione. Legittime le posizioni della Chiesa, ma legittimo pure l´atteggiamento di chi non le condivide, con argomenti che non possono essere scartati con una mossa puramente ideologica. Il dovere del credente non può essere convertito in un obbligo per il cittadino. Di questo elementare principio dovrebbe farsi custode il Parlamento, che dovrebbe ben sapere come la rinuncia ad imporre una particolare visione dell´embrione non significhi degradarlo ad ammasso di cellule, privo d´ogni protezione giuridica. E le future Camere non possono rimanere prigioniere della forzatura istituzionale di quanti si rifanno ai risultati del referendum per affermare l´intoccabilità della legge sulla procreazione assistita. Questo vincolo esiste quando il referendum ha espresso una maggioranza favorevole o contraria alla legge considerata, non nei casi di semplice mancanza del quorum, come dicono chiaramente esempi del passato. Da molti punti di vista la legge sulla procreazione assistita è una pessima legge, e nessun legislatore responsabile può ignorare questo dato di realtà. O chiudere gli occhi di fronte al fatto che la proclamata difesa dell´embrione nulla ha a che fare con le norme discriminatorie che vietano il ricorso ai gameti di un donatore o l´accesso alle tecniche di procreazione per le donne sole. Sì, quindi, alla ripresa di un dialogo senza pregiudiziali ideologiche o formalistiche, e soprattutto senza anatemi e accuse d´omicidio a chi segue l´opinione dei moltissimi scienziati che ritengono che non sia corretta l´identificazione dell´embrione con la persona. 4) No all´inquinamento dell´ambiente delle libertà civili. L´argomento della sicurezza si è trasformato in pretesto per stringere le maglie dei controlli pubblici e privati sui cittadini, per inoculare nella società i veleni della lotta di tutti contro tutti, com´è avvenuto con l´allargamento dei casi di legittimo uso delle armi. È in agguato una pericolosa "democrazia delle emozioni", che si traduce in una vera e propria abdicazione della politica, che rinuncia alla sua indispensabile funzione di filtro delle domande sociali e della loro ammissibilità misurata con i valori costituzionali, vero fondamento della democrazia. Si abusa della parola "libertà" sui cartelloni pubblicitari, e si coltiva nelle azioni concrete il disprezzo per i diritti. Ci si abbandona alle derive tecnologiche, senza tener conto dei rischi per le libertà dei cittadini e della riduzione d´ogni problema a questione d´ordine pubblico. In una zona considerata pericolosa si preferisce ricorrere sempre più spesso alla videosorveglianza piuttosto che cercar di capire le radici sociali del disagio e della violenza. Sì, allora, ad una rinnovata lotta per il diritto, nel senso che spingeva Benedetto Croce a far pubblicare negli anni del fascismo un piccolo classico del liberalismo giuridico che portava appunto quel titolo, scritto da Rudolf von Jhering. 5) No ad un uso della storia che prima la falsifica e poi l´impugna come un´arma. Un solo esempio. Per criticare i giudici di oggi, si descrive una magistratura dell´età liberale pura e indipendente, mentre una serie di ricerche ha da tempo messo in evidenza la sua subordinazione formale al potere esecutivo. E l´esercito dei revisionisti farebbe bene a leggere un saggio del 1958 di Achille Battaglia, che mostra come una serie di norme siano state adoperate, nel dopoguerra, per colpire i partigiani e favorire i fascisti. Sì, allora, ad un ritorno alla lettura dei libri ed all´onestà intellettuale. 6) Liberarsi del linguaggio degradato. Non è facile, perché ha avuto origini e legittimazione anche in alti luoghi istituzionali, e trova incentivo continuo in un sistema della comunicazione dove l´insulto fa più notizia d´una iniziativa seria. Ma si cominci, almeno a non essere più indulgenti con queste manifestazioni, a non derubricarle a folklore politico, a non chiudere gli occhi di fronte all´aggressività sociale favorita dall´aggressività delle parole. 7) Uscire dalla schizofrenia politica e istituzionale. Un bilancio di questa legislatura mostra con grande chiarezza che si sono allentati i vincoli all´agire economico e si è invasa la sfera privata delle persone. Si è stati proibizionisti in bioetica e distratti di fronte alle tecnologie elettroniche, che pure incidono in profondo sulla vita di ognuno. Ed è troppo chiedere un minimo di riflessione, non dirò autocritica, sul modo in cui ha funzionato un sistema che ha sì prodotto bipolarismo, ma pure uno scontro distruttivo davvero senza precedenti?

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Su Welby l'occasione mancata dai giudici

Stefano Rodotà

È sconcertante, ai limiti quasi della denegata giustizia, la decisione con la quale il Tribunale di Roma ha respinto la richiesta di Piergiorgio Welby di poter morire con dignità. La palla è stata rilanciata nel campo della politica.

Ma i tempi della politica non sono quelli della vita. Dichiarando inammissibile quella richiesta, il giudice non ha voluto seguire la via pianamente indicata dal parere della Procura romana ed ha usato un argomento, appunto quello della inammissibilità, che comincia a ricorrere in maniera preoccupante nelle decisioni che riguardano i diritti delle persone nelle materie in cui il loro modo di vivere si intreccia con le tecnologie. Lo aveva già fatto recentemente la Corte costituzionale, chiamata a pronunciarsi sulla legge in materia di procreazione medicalmente assistita. E questo modo di argomentare segna un abbandono da parte della magistratura non di un ruolo di supplenza quando la politica è silenziosa o distratta, ma del suo proprio compito di essere il luogo istituzionale dove le nuove domande di diritti trovano immediate risposte sulla base dei principi già esistenti nel sistema giuridico.

Molte ricerche hanno mostrato come, nel tempo presente, siano appunto i giudici ad intervenire la dove l'innovazione scientifica e tecnologica offre nuove possibilità e fa nascere nuovi problemi. Si è così sostenuto che il diritto giurisprudenziale sia preferibile alla minuta regolamentazione legislativa. Quest’ultima è rigida, destinata quindi ad essere superata e ad entrare in conflitto con i nuovi dati di realtà, mentre l'intervento del giudice segue la vita in tutte le sue pieghe, è capace di adattare alle situazioni concrete i principi di base rinvenibili nelle costituzioni e nelle grandi leggi di principio. Nella materia della bioetica questa impostazione si rivela particolarmente importante e grazie ad essa, nei più diversi paesi, sono state affrontate e risolte questioni difficili. Il caso di Piergiorgio Welby, quale che sia il punto di vista dal quale lo si consideri, doveva essere risolto accogliendo la sua richiesta, perchè così vogliono principi e regole ormai solidamente fondati nel nostro sistema giuridico.

Al centro del nostro sistema giuridico è la persona con la sua volontà, non più paziente sottoposto al volere del medico, ma soggetto morale nel senso più alto, al quale competono soprattutto le decisioni che riguardano i drammi dell'esistere. Lo riconosce anche l'ordinanza romana, quando ripercorre la storia non breve che ha portato a fondare esclusivamente sul consenso della persona interessata qualsiasi trattamento riguardante la salute, legittimando in primo luogo il rifiuto di cure. "Un diritto soggettivo perfetto", come si legge nella stessa ordinanza. Che, però, subito dopo ritiene che quel diritto davvero perfetto non è, mancando le condizioni per la sua concreta tutela. Lasciamo da parte le molte considerazioni che potrebbero esser fatte su questo modo di argomentare, e vediamo quali sarebbero queste condizioni. Sostanzialmente due: la mancata specificazione di che cosa debba intendersi per accanimento terapeutico e la “indisponibilità del bene vita”. Ma questa conclusione è il risultato di un fraintendimento grave dei dati normativi e dell'effettivo significato del rifiuto di cure.

Nell'ordinanza, infatti, si stabilisce una relazione tra il "diritto del paziente ad 'esigere' e 'pretendere' che sia cessata l'attività medica di mantenimento in vita" ed una situazione di "mero accanimento terapeutico". E qui la confusione concettuale è massima, poiché rifiuto di cure e accanimento terapeutico sono cose diverse, descrivono situazioni indipendenti l'una dall'altra. Non è vero che il rifiuto di cure sia ammissibile solo in presenza di un accanimento terapeutico. Tra i moltissimi casi, mi limito a ricordarne uno solo, di particolare evidenza: quello di una donna che, non ritenendo accettabile il vivere con una menomazione, ha rifiutato l'amputazione di una gamba in cancrena, ed è morta. Siamo di fronte all'opposto dell'accanimento terapeutico, poiché la cura le avrebbe salvato la vita. Questo dimostra che il rifiuto di cure deve essere rispettato in ogni caso, quando vi sia una esplicita manifestazione di volontà dell'interessato, esattamente quel che ha fatto Welby.

Si risolve così anche un altro problema, impropriamente sollevato dall'ordinanza, relativo al fatto che la vita di una persona dipenderebbe dalla valutazione soggettiva del medico, chiamato a decidere se vi sia o no accanimento terapeutico, mentre il medico non deve compiere alcuna valutazione discrezionale, ma limitarsi ad accertare quale sia la volontà della persona. Comunque sia, è infondata anche la tesi, sostenuta nell'ordinanza, secondo la quale non sarebbe possibile fondare una decisione giudiziaria sull'accanimento terapeutico, poiché questa nozione, come altri principi, sarebbe "incerta ed evanescente". Ma il diritto è sempre più ricco di queste clausole generali, di questi concetti non specificatamente determinati, che sono finestre aperte su un mondo sempre più mutevole e che hanno la funzione di consentire l'adattamento della norma alla realtà senza bisogno di continui aggiustamenti legislativi. È storia lunga, che i tecnici del diritto dovrebbero ben conoscere, che riguarda ad esempio nozioni come "comune senso del pudore" o "buona fede", non specificate nel dettaglio dal legislatore e che vivono proprio grazie al lavoro dei giudici, che ne precisano un contenuto che varia nel tempo e nei contesti.

E l'approssimazione culturale finisce con il travolgere persino il principio della dignità della persona di cui, secondo l'ordinanza, il giudice non potrebbe servirsi proprio per la sua indeterminatezza, mentre a questo principio fanno costante riferimento sentenze della Corte costituzionale e delle altre magistrature, coerentemente con il fatto che esso è ormai uno dei fondamenti delle nostre organizzazioni sociali, tanto da aprire la Carta dei diritti fondamentali dell'Unione europea. L'approssimazione continua quando si afferma apoditticamente che il bene della vita è indisponibile, mentre proprio il diritto al rifiuto di cure, ormai largamente e ripetutamente esercitato, dimostra che così non è. Se l'ordinanza avesse ripercorso correttamente l’itinerario costituzionale, sarebbero stati evitati errori e sgrammaticature. L'articolo 32 fornisce una linea nitida: la salute è diritto fondamentale dell'individuo, non possono essere imposti trattamenti sanitari se non per legge, e mai la legge può violare "i limiti imposti dal rispetto della persona umana".

Poiché per salute deve intendersi "il benessere fisico, psichico e sociale" della persona (questa è la definizione dell'organizzazione mondiale della sanità, accolta nel nostro sistema),questo vuoi dire che il governo dell'intera vita è fondato sulle libere decisioni degli interessati. Poiché nessuno può essere obbligato ad un trattamento sanitario, l'argomentazione dell'ordinanza deve essere rovesciata: la mancanza di una legge rende illegittimo il trattamento, non la richiesta di interromperlo. Poiché nulla può esser fatto che violi la dignità, "il rispetto della persona umana, questo vuol dire, soprattutto in situazioni estreme e drammatiche, che nessuno può imporre la prigionia della sofferenza. L'ordinanza è una occasione mancata, e mi auguro che le sue molte storture possano essere corrette se i legali di Welby decideranno di impugnarla, anche per mettere un freno ad una regressione culturale. Ma fraintendimenti e rischi non si fermano qui.

Che cosa avverrà quando verrà reso noto il parere del Consiglio superiore di sanità, chiesto con una certa approssimazione, visto che a questo organismo non spetta la decisione su casi singoli? Se dirà che Welby non è oggetto di un accanimento terapeutico, e mi sembra difficile, non per questo escluderà la legittimità della richiesta di rifiuto di cure, dato che le questioni stanno su piani diversi, come ho già ricordato. Ma se riconoscerà l'accanimento terapeutico, scatterà l'articolo 14 del codice di deontologia e il medico sarà obbligato ad interrompere il trattamento, con tutte le ovvie cautele necessarie per evitare ulteriori e inutili sofferenze. Guardando ai compiti del legislatore, si insiste nel dire che problemi come questi saranno risolti dalla legge sul testamento biologico. Continuo ad essere sbalordito da questa ulteriore confusione, poiché quel tipo di documento riguarda la situazione del morente incapace di manifestare la propria volontà, mentre Piergiorgio Welby è lucidissimo e determinato nella scelta intorno al modo di porre fine alla sua vita.

Anche questa operazione di pulizia concettuale è indispensabile, per impedire che la già difficile discussione sul testamento biologico venga complicata dal caricare su di essa altre e improprie finalità. Mi è tornato alla memoria, in questi giorni, quel che nel 1970 Paolo VI scriveva al cardinale Villot, responsabile dei medici cattolici: «Pur escludendosi l'eutanasia, ciò non significa obbligare il medico ad utilizzare tutte le tecniche della sopravvivenza che gli offre una scienza infaticabilmente creatrice (…).Il dovere del medico consiste piuttosto nell'adoperarsi a calmare le sofferenze, invece di prolungare il più a lungo possibile, con qualunque mezzo e a qualunque condizione, una vita che non è più pienamente umana». L'ordinanza romana avrebbe potuto mettere il buon diritto in sintonia con la vita, restituendole l'umanità. Non lo ha fatto. Ma non può interrompere un difficile cammino di incivilimento che porterà, anche in Italia, a poter pubblicare un sereno annuncio della morte di una persona come quello apparso il 6 dicembre sui giornali del Canton Ticino, dove il fratello dello scomparso ringraziava i medici che l'avevano “portato a una morte dolce e indolore come lui desiderava, senza nessun accanimento terapeutico”.

La Repubblica
di Stefano Rodotà
18 Dicembre, 2006 - 11:00

 

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Se il Parlamento concede
un ruolo civile alla Chiesa

di STEFANO RODOTÀ

PROTETTI dal velo d'ignoranza sul voto referendario, proviamo ad immaginare quale potrebbe o dovrebbe essere la situazione a partire da questa sera, quale che sia l'esito di quel voto. O forse da domani mattina, essendo difficile che nei commenti a caldo, appena conosciuto il risultato, si riesca a mutare di colpo un clima fin troppo avvelenato.

In che modo dovrebbe riprendere la discussione? Dico riprendere, e non continuare. Guai, infatti, se toni e argomenti continuassero ad essere quelli delle ultime settimane, sull'onda del modo aggressivo in cui i difensori della legge hanno impostato le diverse questioni. È vero che il referendum ha confermato d'essere un importante, per certi versi insostituibile, strumento di promozione di consapevolezza pubblica su questioni d'interesse generale.

Ma è vero pure che molte rozzezze della discussione sono pure figlie del modo in cui il Parlamento è arrivato ad approvare la legge sulla procreazione medicalmente assistita, senza approfondimenti adeguati, senza un dialogo con l'opinione pubblica, con una attenzione rivolta più agli argomenti della Chiesa cattolica che agli interessi delle persone, delle donne in primo luogo. Lo testimoniano i molti ripensamenti di parlamentari che pure avevano votato la legge. E' possibile affrontare la fase prossima evitando di rimanere di nuovo prigionieri di approssimazioni e ideologizzazioni?

Se consideriamo il cammino percorso in paesi come la Gran Bretagna, la Spagna, la Francia quando si è deciso di affrontare anche con strumenti legislativi le questioni della procreazione assistita, ci accorgiamo subito che all'inizio di quel cammino vi sono rapporti affidati a personalità autorevoli che avevano non solo o non tanto la funzione di offrire un contributo ai parlamentari, quanto piuttosto quella di aprire, come in effetti avvenne, una discussione pubblica di cui tener conto nel momento in cui si decideva di passare all'approvazione una legge.

 

Il rapporto inglese, affidato ad una studiosa di filosofia morale, Mary Warnock, viene ancor oggi letto e utilizzato in tutto il mondo; il Rapporto Palacio è all'origine della legislazione spagnola; e in Francia, dopo un importante contributo del Consiglio di Stato, il Rapporto Braibant, le leggi di bioetica del 1994 si giovarono assai del ricco materiale, anche comparativo, messo a disposizione dal Rapporto Lenoir.

Diversi nelle impostazioni e in molte conclusioni, tutti questi rapporti avevano però un elemento in comune: la consapevolezza di quanto fosse complesso, difficile, contorto persino, il percorso "dall'etica al diritto" (era questo il titolo del rapporto del Consiglio di Stato francese).

Ci si liberava così dall'illusione e dalla pretesa pericolosa di un'etica, qualsiasi etica, che agisse in presa diretta sulla società, usando il diritto come braccio secolare, come inammissibile scorciatoia autoritaria. È vero che il ritmo incalzante delle innovazioni scientifiche e tecnologiche produce sconcerto, difficoltà sociale nel metabolizzarle.

Ma la risposta, quando si decide di ricorrere al diritto, dovrebbe forse essere cercata ricordando una vecchia definizione del diritto come "minimo etico" all'interno di una società. Che non voleva dire indifferenza per principi o valori forti, ma additava il diritto come strumento che non può limitarsi a chiudere autoritativamente un conflitto: deve cercare punti di unione, e su questi costruire la regola, permettendo così la prosecuzione della discussione e la produzione di più forti e condivisi valori comuni.

Questa sobrietà non serve soltanto per salvaguardare la laicità dello Stato, per evitare la nascita di Stati confessionali, di teocrazie, di dittature portatrici di un'indiscutibile ideologia. È la regola della democrazia, che si ritrova nell'elogio del compromesso fatto da Hans Kelsen: "Compromesso significa risoluzione di un conflitto mediante una norma che non è totalmente conforme agli interessi di una parte, né totalmente contraria agli interessi dell'altra. Ed è proprio in virtù di questa tendenza al compromesso che la democrazia è una approssimazione all'ideale dell'autodeterminazione completa".

Per l'Italia del dopo referendum non si può auspicare che il cammino riprenda da qualche rapporto, perché comunque è urgente riparare i guasti maggiori già prodotti dalla legge n. 40 (e neppure voglio pensare a quali bagarre, lottizzazioni, cencellate e simili si andrebbe incontro nella scelta delle persone alle quali affidare un rapporto del genere). Ma si dovrebbe pretendere il recupero di questo aspetto della democrazia, che significa insieme civiltà del confronto, riscoperta della dimensione propria dell'etica, rinuncia all'uso puramente autoritario del diritto, anzi individuazione dei limiti dello stesso diritto, dunque delle situazioni nelle quali è bene che non entri.

Non è cosa facile. Ma bisogna almeno prendere in parola quanti hanno sostenuto che l'astensione serviva proprio a far sì che la legge, improvvidamente sottoposta a cittadini sprovveduti, potesse tornare nelle mani di illuminati legislatori. Se ciò dovesse avvenire, si potrebbe per un momento (ma solo per un momento) dimenticare il disprezzo che così si esprime, al tempo stesso, nei confronti del cittadino e di un istituto, il referendum, attraverso il quale la Costituzione ha voluto il popolo come "legislatore negativo" (a proposito: dove sono finiti in queste settimane quelli che in ogni momento invocano il popolo come fonte d'ogni potere?).

Si torni in Parlamento, allora. Consapevoli, però del fatto che senza l'iniziativa referendaria gli spiriti critici ed autocritici nei confronti della legge n. 40 sarebbero rimasti silenziosi. Questo risveglio è già un'indicazione politica, che obbliga a guardare, al di là degli stessi quesiti referendari, all'intera legge, perché non si tratta tanto di rimediare a questa o a quella sua imperfezione, ma di cercare almeno di renderla non del tutto incompatibile con l'essenzialità del ruolo femminile in tutto il processo procreativo, con principi come quello d'eguaglianza, con diritti come quello alla salute. Questo vuol dire far cadere i divieti riguardanti la fecondazione eterologa, l'obbligo d'impianto degli embrioni, la diagnosi preimpianto.

La discussione resa possibile dai referendum, infatti, ha mostrato che sono superabili le obiezioni alla fecondazione eterologa riconoscendo eventualmente il diritto alla conoscenza dell'identità del donatore e sicuramente la conservazione delle sue informazioni genetiche; che le linee guida ministeriali hanno solo in parte superato l'assurdo obbligo di farsi impiantare gli embrioni prodotti; che proprio la caduta di quest'obbligo ripropone il tema della diagnosi preimpianto, che potrebbe ad esempio essere introdotta con le cautele previste dalla recentissima legge francese.

Ma le discussioni hanno pure mostrato l'insostenibilità di un divieto di ricerca sulle cellule staminali esteso anche agli embrioni congelati. E hanno fatto nitidamente emergere come siano possibili forme differenziate ed adeguate di tutela delle forme di vita a partire dal concepimento, ponendo così le premesse per abbandonare la secca equiparazione tra concepito e persona: si riaprirebbe così la feconda discussione già avviata sullo statuto dell'embrione e si eviterebbe il rischio di giocare la legge sulla procreazione assistita contro quella sull'aborto.

Ma né il voto referendario, quale che sia, né una possibile ripulitura parlamentare possono far venire meno il controllo di costituzionalità sulla legge. Basta ricordare soltanto che i divieti riguardanti l'accesso alle tecnologie della riproduzione da parte di donne sole o di coppie non sterili con rischio di trasmissione di malattie genetiche appaiono sicuramente in contrasto con il principio di eguaglianza e con il diritto fondamentale alla salute. E già si annunciano ricorsi alla Corte costituzionale, che sarà dunque la sede dove la legge nel suo insieme troverà ulteriori e molteplici occasioni per verificarne proprio la compatibilità con principi di base del nostro sistema.

La vicenda referendaria lascia comunque una più lunga e profonda eredità. Prima in Parlamento, e poi più intensamente nella campagna elettorale, si è manifestato un programma politico di riscrittura dei valori fondativi della convivenza civile che travolge valori costituzionali; li subordina non all'etica, ma alla religione; postula un ruolo civile della Chiesa.

Sarebbe dunque profondamente sbagliato considerare la vicenda referendaria come una parentesi, Nella storia politica italiana si è aperta una nuova fase, che può essere fronteggiata solo se si ha consapevolezza della sua portata. Guai a darne letture riduttive, rinunciando a provvedersi di
adeguati strumenti culturali e politici.

 

L'intrusione di Ratzinger alla Sapienza
 
Come ha brillantemente illustrato Stefano Rodotà l'altra sera, martedì 15 a Ballarò, la vicenda è nata male e proseguita peggio.
Anzitutto al papa era stato proposto addirittura di presiedere l'inaugurazione della cerimonia. Cosa che è parsa a tutti eccessiva, essendo l'università un luogo laico. Poi si è cercato di architettare un dietrofront, con un percorso condotto in modo piuttosto maldestro da entrambe le parti. Infine è stato proposto a Benedetto XVI di venire a fare un saluto, a conclusione di una cerimonia contro la pena di morte.
Due, sottolinea Rodotà, i motivi di contrarietà a tutta l'iniziativa: il primo è legato al fatto di voler creare un evento, su un appuntamento che è invece di routine, e non ha alcun bisogno di particolari enfasi spettacolari e mediatiche; il secondo è la violazione della natura laica di un'istituzione pubblica di grande importanza.

Al di là del metodo della protesta, che si è fondata su slogan più e meno ragionevoli (dalla difesa di Galileo alla "via Frocis"), il punto cruciale è proprio l'ultimo menzionato da Rodotà: questo Paese non ha ancora chiaro cosa significhi la laicità dello Stato.
Non è necessaria la presenza del capo della Chiesa cattolica ad una manifestazione accademica. Non si capisce a che titolo dovrebbe presenziare, quale ne sia l'esigenza. Un'intromissione del tutto gratuita e inopportuna, dunque, tesa a soddisfare le coscienze di parte, offendendo però il principio di neutralità dell'istituto accademico.

Questo Paese è ancora lontano dal comprendere che lo Stato e tutte le sue emanazioni, sono tenuti a difendere in ogni modo l'imparzialità e l'uguaglianza di trattamento nei confronti della sfera spirituale. E l'unica strada, è quella di tenersi fuori da qualunque intromissione di qualunque parrocchia. Paolo Arsena   17-01-2008
 

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  http://ilghibellino.blogspot.com/2008/01/la-laicit-dopo-il-caso-sapienza.html

martedì 22 gennaio 2008

La laicità dopo il caso Sapienza

 
La Repubblica 22.1.08
La laicità dopo il caso Sapienza
di Stefano Rodotà

L´analisi delle vicende complesse, dunque l´esercizio della virtù della riflessione e della distinzione, diviene sempre più difficile. Questa difficoltà è cresciuta nel caso della visita del Papa all´università "La Sapienza". Senza ricorrere alla parola "laicità", e ricordando anche argomentazioni già proposte, vorrei sottolineare quali dovrebbero essere i principi di un discorso pubblico in una società che vuol essere democratica.
Per cominciare. Il furore polemico ha abusato di due argomenti, che chiamerò volterriano e iran-americano. Ridotta a slogan o a giaculatoria, è stata ripetuta la nota massima di Voltaire – «non condivido le tue idee, ma mi batterò perché tu possa manifestarle» (su questo ha scritto bene Giovanni Valentini). Ma, se durante una delle settimanali udienze del Papa uno dei partecipanti alza la mano, pretende di tenere un discorso e viene giustamente invitato a tacere, il canone volterriano è violato? Se, all´apertura di un congresso di partito, subito dopo la relazione del segretario, il leader di un altro partito pretende di parlare e giustamente gli viene negata la parola, siamo di fronte alla censura, all´imposizione di un bavaglio? Faccio queste domande, retoriche, non per ridimensionare la portata del principio indicato da Voltaire, ma per ricordare che si deve sempre tenere conto del contesto e, soprattutto, che quel principio non può essere applicato selettivamente. Non ci si può battere per il diritto di parola di Benedetto XVI e negarlo a Marcello Cini e Carlo Bernardini. La correttezza del discorso pubblico esige il rispetto del principio di parità.
Veniamo all´altro argomento. Più d´uno, per mostrare l´inaccettabilità delle pretese dei critici dell´invito al Papa, ha voluto ricordare che la Columbia University ha addirittura invitato il Presidente iraniano Ahmadinejad. Si può invitare un dittatore, un negatore dell´Olocausto, e non il Pontefice? Vediamo come sono andati i fatti. All´annuncio della visita sono partite molte critiche accademiche e una forte protesta degli studenti. Prima di dar la parola ad Ahmadinejad il presidente dell´università, Lee Bollinger, ha criticato con estrema durezza, al limite della maleducazione, le sue idee e posizioni. Dopo il discorso del Presidente iraniano, i presenti gli hanno rivolto molte domande ed hanno commentato anche pesantemente le sue risposte. Quel che è accaduto a New York, dunque, prova esattamente il contrario di quel che sostenevano quanti hanno richiamato quel fatto. L´università si fonda, in ogni momento, sul confronto e sul dialogo. La correttezza del discorso pubblico esige il rispetto del principio della veritiera descrizione dei fatti.
Proprio in omaggio a questo principio, bisogna ricordare che, pur essendo vero che alcune decisioni universitarie sono di competenza del Rettore e del Senato accademico, questo non vuol dire affatto che queste decisioni non possano essere oggetto di pubblica critica da parte di ogni professore o studente, né che la loro libertà di critica sia limitata alla scelta di non partecipare all´evento sgradito. L´università non è una organizzazione rigidamente gerarchica, né il Rettore è assistito dal privilegio dell´infallibilità. Peraltro, proprio la storia recente delle inaugurazioni dell´anno accademico alla Sapienza conosce critiche e contestazioni, in qualche caso accolte, agli inviti che si aveva in mente di fare. Non è esclusa la possibilità di invitare qualcuno a parlare senza contraddittorio, ma è indispensabile valutare attentamente le conseguenze di questa scelta. La correttezza del discorso pubblico esige che ogni vicenda venga valutata nel preciso contesto in cui si è svolta.
È rivelatore, peraltro, il modo in cui sono stati giudicati i 67 professori firmatari della lettera al Rettore, con la quale veniva chiesta le revoca dell´invito a Benedetto XVI. Sono stati definiti "professorucoli", si è detto che «i ragli degli asini non arrivano in cielo». La libertà accademica e la libertà di manifestazione del pensiero, dunque, dovrebbero arrestarsi di fronte al principio di autorità? Quale "licenza de li superiori" sarebbe necessaria per ottenere il permesso di parlare di chi sta in alto? La correttezza del discorso pubblico esige il rispetto del principio che tutti possano parteciparvi.
La critica ai professori firmatari della lettera e alle posizioni estreme di alcuni gruppi di studenti ha poi assunto toni dichiaratamente politici ed ha determinato anche ulteriori travisamenti della realtà. Si è descritto quel che è accaduto con parole come "veto", "censura", "cacciata", "bavaglio". Non insisto sul dato formale, ma tutt´altro che irrilevante, di una decisione presa in assoluta autonomia dal Papa, di cui non discuto motivazioni e finalità. Ma non si può chiedere ai firmatari di uniformarsi ad un principio di "opportunità" che, come ben vediamo in molti settori a cominciare da quello dei mezzi d´informazione, può facilmente diventare autocensura. La democrazia si nutre di opinioni non solo diverse, ma anche sgradevoli, delle quali si può ben discutere il merito, ma di cui non si può negare la legittimità. E le posizioni degli studenti devono essere giudicate con lo stesso metro, eccezion fatta per gli aspetti di ordine pubblico, peraltro ritenuti tali da non provocare preoccupazioni, secondo le dichiarazioni del ministro dell´Interno. Comunque, gli aspetti politici della vicenda devono essere analizzati con criteri anch´essi politici. La correttezza del discorso pubblico esige che non si mescolino i piani delle valutazioni.
La politica, allora. È indubitabile, ormai, che non tanto la linea scelta dal Pontefice, quanto i concreti modi di attuarla, vadano ben al di là della dimensione pastorale e teologica. Il Pontefice si comporta ed è percepito come un leader politico. Questa non è una conclusione malevola. Basta ricordare una sola vicenda, quella legata al duro intervento del Papa sulle condizioni di Roma in occasione dell´udienza concessa ai rappresentanti degli enti locali del Lazio. Quelle dichiarazioni hanno determinato una trattativa "diplomatica" che, in linea con le peggiori abitudini della politica italiana, ha poi portato a denunciare le "strumentalizzazioni" e le "deformazioni" delle parole del Papa, entrate con prepotenza nel dibattito politico.
Questo porta ad una considerazione più generale. Si insiste nel dire che la religione deve essere riconosciuta anche nella sfera pubblica. Ma che cosa significa questa affermazione? Che nello spazio pubblico la religione ha uno statuto privilegiato o che, entrando in quello spazio, ogni religione partecipa al discorso pubblico con le proprie importanti caratteristiche, ma in condizioni di parità? Nel 1989 la Corte costituzionale ha scritto che «il principio supremo della laicità dello Stato è uno dei principi della forma di Stato delineata nella Carta costituzionale della Repubblica», sancendo così l´eguaglianza che accomuna tutte le religioni e, insieme, la loro sottoposizione a quel principio fondativo della convivenza democratica. Nella sfera pubblica tutti i soggetti devono accettare la logica del dialogo, della critica ed anche della contestazione.
Altrimenti l´insidia del temporalismo si fa concreta. Non a caso da studiosi autorevoli e da politici cattolici consapevoli dei rischi di questa deriva sono venute analisi rigorose del rischio di un ritorno del "Papa re" e di un vero uso strumentale della religione, simboleggiato da quella sorta di "chiamata alle armi" dei cattolici a manifestare in piazza San Pietro in una occasione squisitamente liturgica. La correttezza del discorso pubblico esige una presenza costante del canone della democrazia.
Ha fatto bene Alberto Asor Rosa a ricordare la feconda stagione di dialogo tra credenti e non credenti nella Cappella universitaria della Sapienza, dove ebbi la fortuna di discutere con un grande biblista, Luis Alonso Schoekel. Aggiungo il mio personale ricordo dell´invito che rivolsi a monsignor Clemente Riva perché venisse a parlare nel mio corso, e del suo emozionante dialogo con gli studenti. Altri tempi, altre persone, altra politica? Una stagione irripetibile? Spero e voglio credere di no, perché continuo ad avere molte occasioni di dialogo con un mondo cattolico che tuttavia fatica ad essere presente nella sfera pubblica. Altrimenti dovremmo tornare alle amare parole di Arturo Carlo Jemolo, che nel 1963 così scriveva: «Questa Italia non è quella che avevo sperato; questa società non è quella che vaticinavo... l´affermarsi e il dissolversi delle tavole del liberalismo; l´inattesa realizzazione di uno Stato guelfo a cento anni dal crollo delle speranze neoguelfe».

 

 

La Repubblica 13.6.05                                           
Se il Parlamento concede
un ruolo civile alla Chiesa

di STEFANO RODOTÀ

PROTETTI dal velo d'ignoranza sul voto referendario, proviamo ad immaginare quale potrebbe o dovrebbe essere la situazione a partire da questa sera, quale che sia l'esito di quel voto. O forse da domani mattina, essendo difficile che nei commenti a caldo, appena conosciuto il risultato, si riesca a mutare di colpo un clima fin troppo avvelenato.

In che modo dovrebbe riprendere la discussione? Dico riprendere, e non continuare. Guai, infatti, se toni e argomenti continuassero ad essere quelli delle ultime settimane, sull'onda del modo aggressivo in cui i difensori della legge hanno impostato le diverse questioni. È vero che il referendum ha confermato d'essere un importante, per certi versi insostituibile, strumento di promozione di consapevolezza pubblica su questioni d'interesse generale.

Ma è vero pure che molte rozzezze della discussione sono pure figlie del modo in cui il Parlamento è arrivato ad approvare la legge sulla procreazione medicalmente assistita, senza approfondimenti adeguati, senza un dialogo con l'opinione pubblica, con una attenzione rivolta più agli argomenti della Chiesa cattolica che agli interessi delle persone, delle donne in primo luogo. Lo testimoniano i molti ripensamenti di parlamentari che pure avevano votato la legge. E' possibile affrontare la fase prossima evitando di rimanere di nuovo prigionieri di approssimazioni e ideologizzazioni?

Se consideriamo il cammino percorso in paesi come la Gran Bretagna, la Spagna, la Francia quando si è deciso di affrontare anche con strumenti legislativi le questioni della procreazione assistita, ci accorgiamo subito che all'inizio di quel cammino vi sono rapporti affidati a personalità autorevoli che avevano non solo o non tanto la funzione di offrire un contributo ai parlamentari, quanto piuttosto quella di aprire, come in effetti avvenne, una discussione pubblica di cui tener conto nel momento in cui si decideva di passare all'approvazione una legge.

 

Il rapporto inglese, affidato ad una studiosa di filosofia morale, Mary Warnock, viene ancor oggi letto e utilizzato in tutto il mondo; il Rapporto Palacio è all'origine della legislazione spagnola; e in Francia, dopo un importante contributo del Consiglio di Stato, il Rapporto Braibant, le leggi di bioetica del 1994 si giovarono assai del ricco materiale, anche comparativo, messo a disposizione dal Rapporto Lenoir.

Diversi nelle impostazioni e in molte conclusioni, tutti questi rapporti avevano però un elemento in comune: la consapevolezza di quanto fosse complesso, difficile, contorto persino, il percorso "dall'etica al diritto" (era questo il titolo del rapporto del Consiglio di Stato francese).

Ci si liberava così dall'illusione e dalla pretesa pericolosa di un'etica, qualsiasi etica, che agisse in presa diretta sulla società, usando il diritto come braccio secolare, come inammissibile scorciatoia autoritaria. È vero che il ritmo incalzante delle innovazioni scientifiche e tecnologiche produce sconcerto, difficoltà sociale nel metabolizzarle.

Ma la risposta, quando si decide di ricorrere al diritto, dovrebbe forse essere cercata ricordando una vecchia definizione del diritto come "minimo etico" all'interno di una società. Che non voleva dire indifferenza per principi o valori forti, ma additava il diritto come strumento che non può limitarsi a chiudere autoritativamente un conflitto: deve cercare punti di unione, e su questi costruire la regola, permettendo così la prosecuzione della discussione e la produzione di più forti e condivisi valori comuni.

Questa sobrietà non serve soltanto per salvaguardare la laicità dello Stato, per evitare la nascita di Stati confessionali, di teocrazie, di dittature portatrici di un'indiscutibile ideologia. È la regola della democrazia, che si ritrova nell'elogio del compromesso fatto da Hans Kelsen: "Compromesso significa risoluzione di un conflitto mediante una norma che non è totalmente conforme agli interessi di una parte, né totalmente contraria agli interessi dell'altra. Ed è proprio in virtù di questa tendenza al compromesso che la democrazia è una approssimazione all'ideale dell'autodeterminazione completa".

Per l'Italia del dopo referendum non si può auspicare che il cammino riprenda da qualche rapporto, perché comunque è urgente riparare i guasti maggiori già prodotti dalla legge n. 40 (e neppure voglio pensare a quali bagarre, lottizzazioni, cencellate e simili si andrebbe incontro nella scelta delle persone alle quali affidare un rapporto del genere). Ma si dovrebbe pretendere il recupero di questo aspetto della democrazia, che significa insieme civiltà del confronto, riscoperta della dimensione propria dell'etica, rinuncia all'uso puramente autoritario del diritto, anzi individuazione dei limiti dello stesso diritto, dunque delle situazioni nelle quali è bene che non entri.

Non è cosa facile. Ma bisogna almeno prendere in parola quanti hanno sostenuto che l'astensione serviva proprio a far sì che la legge, improvvidamente sottoposta a cittadini sprovveduti, potesse tornare nelle mani di illuminati legislatori. Se ciò dovesse avvenire, si potrebbe per un momento (ma solo per un momento) dimenticare il disprezzo che così si esprime, al tempo stesso, nei confronti del cittadino e di un istituto, il referendum, attraverso il quale la Costituzione ha voluto il popolo come "legislatore negativo" (a proposito: dove sono finiti in queste settimane quelli che in ogni momento invocano il popolo come fonte d'ogni potere?).

Si torni in Parlamento, allora. Consapevoli, però del fatto che senza l'iniziativa referendaria gli spiriti critici ed autocritici nei confronti della legge n. 40 sarebbero rimasti silenziosi. Questo risveglio è già un'indicazione politica, che obbliga a guardare, al di là degli stessi quesiti referendari, all'intera legge, perché non si tratta tanto di rimediare a questa o a quella sua imperfezione, ma di cercare almeno di renderla non del tutto incompatibile con l'essenzialità del ruolo femminile in tutto il processo procreativo, con principi come quello d'eguaglianza, con diritti come quello alla salute. Questo vuol dire far cadere i divieti riguardanti la fecondazione eterologa, l'obbligo d'impianto degli embrioni, la diagnosi preimpianto.

La discussione resa possibile dai referendum, infatti, ha mostrato che sono superabili le obiezioni alla fecondazione eterologa riconoscendo eventualmente il diritto alla conoscenza dell'identità del donatore e sicuramente la conservazione delle sue informazioni genetiche; che le linee guida ministeriali hanno solo in parte superato l'assurdo obbligo di farsi impiantare gli embrioni prodotti; che proprio la caduta di quest'obbligo ripropone il tema della diagnosi preimpianto, che potrebbe ad esempio essere introdotta con le cautele previste dalla recentissima legge francese.

Ma le discussioni hanno pure mostrato l'insostenibilità di un divieto di ricerca sulle cellule staminali esteso anche agli embrioni congelati. E hanno fatto nitidamente emergere come siano possibili forme differenziate ed adeguate di tutela delle forme di vita a partire dal concepimento, ponendo così le premesse per abbandonare la secca equiparazione tra concepito e persona: si riaprirebbe così la feconda discussione già avviata sullo statuto dell'embrione e si eviterebbe il rischio di giocare la legge sulla procreazione assistita contro quella sull'aborto.

Ma né il voto referendario, quale che sia, né una possibile ripulitura parlamentare possono far venire meno il controllo di costituzionalità sulla legge. Basta ricordare soltanto che i divieti riguardanti l'accesso alle tecnologie della riproduzione da parte di donne sole o di coppie non sterili con rischio di trasmissione di malattie genetiche appaiono sicuramente in contrasto con il principio di eguaglianza e con il diritto fondamentale alla salute. E già si annunciano ricorsi alla Corte costituzionale, che sarà dunque la sede dove la legge nel suo insieme troverà ulteriori e molteplici occasioni per verificarne proprio la compatibilità con principi di base del nostro sistema.

La vicenda referendaria lascia comunque una più lunga e profonda eredità. Prima in Parlamento, e poi più intensamente nella campagna elettorale, si è manifestato un programma politico di riscrittura dei valori fondativi della convivenza civile che travolge valori costituzionali; li subordina non all'etica, ma alla religione; postula un ruolo civile della Chiesa.

Sarebbe dunque profondamente sbagliato considerare la vicenda referendaria come una parentesi, Nella storia politica italiana si è aperta una nuova fase, che può essere fronteggiata solo se si ha consapevolezza della sua portata. Guai a darne letture riduttive, rinunciando a provvedersi di adeguati strumenti culturali e politici.

http://www.repubblica.it/2005/f/sezioni/politica/dossifeconda6/rodorefe/rodorefe.html

 STEFANO RODOTA'  La politica debole e l´offensiva della Chiesa

 Brutte giornate nel Parlamento, e dintorni. E allora bisogna guardare più a fondo, e più lontano, nel considerare il modo in cui oggi si discute e si decide su questioni essenziali e drammatiche dell´esistenza di ciascuno di noi – come morire e come organizzare le relazioni affettive, come procreare e come dare il cognome ai figli e come riconoscere pienezza di diritti a quelli nati fuori dal matrimonio. Sono in campo in prima persona, ed è un fatto inedito nella storia repubblicana, tutte le grandi istituzioni: Presidente della Repubblica, Governo, Parlamento, Corte costituzionale, magistratura. E la Chiesa cattolica, sempre più presente. E una opinione pubblica sempre più sondata e sempre meno informata. Vale la pena di seguire le mosse di alcuni di questi protagonisti.
Dice il Cardinal Ruini: è «norma di saggezza non pretendere che tutto possa essere previsto e regolato per legge». Dice il Presidente della Corte di Cassazione: «Appare urgente e indispensabile un intervento del legislatore che affronti e chiarisca i gravi problemi che sempre più frequentemente si presentano al giurista e al medico». Chi ha ragione?
Nessuno dei due. Intendiamoci: nelle materie che interessano la vita è sempre necessario un uso sobrio e prudente della legge e i giudici devono avere forti principi di riferimento per le loro decisioni. Ma la sobrietà, o addirittura l´assenza, dell´intervento legislativo significa cose radicalmente diverse a seconda che manifesti rispetto della libertà individuale o, al contrario, intenzione di mantenere vincoli costrittivi, volontà di girare la testa dall´altra parte di fronte alle dinamiche sociali ed alle difficoltà dell´esistenza. Il legislatore auspicato da Ruini non avrebbe dovuto votare la legge sul divorzio, quella sull´interruzione di gravidanza e neppure quella pericolosa riforma del diritto di famiglia del 1975, a lungo avversata da ambienti cattolici perché abbandonava il modello gerarchico e riconosceva i diritti dei figli nati fuori dal matrimonio (e anche allora si impugnava una interpretazione gretta della nozione di famiglia). Oggi siamo di fronte ad una situazione analoga. Affrontando con poche norme le questioni delle unioni di fatto e del diritto di morire con dignità, il legislatore non invade indebitamente la sfera delle decisioni private. Rimuove ostacoli ormai irragionevoli, sviluppa logiche già ben visibili nel nostro sistema costituzionale, non impone nulla a nessuno e mette ciascuno nella condizione di esercitare responsabilmente la propria libertà.
Perché, a questo punto, non si può dar ragione neppure al Presidente della Cassazione? Perché nelle sue parole si scorge anche un ritrarsi da responsabilità che sono proprie della magistratura, un riflesso dell´atteggiamento gravemente rinunciatario che si è manifestato nelle decisioni riguardanti Piergiorgio Welby ed Eluana Englaro. Due casi che i giudici avrebbero potuto risolvere seguendo in particolare la linea tracciata dagli articoli della Costituzione sulla libertà personale e sul diritto alla salute (e che era stata indicata con precisione da un parere della Procura di Roma).
Sembra quasi che i giudici, messi di fronte a temi assai impegnativi e che dividono la società, abbiano scelto di chiamarsi fuori, di lasciare che sia solo la politica ad affrontare e risolvere questioni che pure li investono direttamente. Questo accade perché, provati da un lungo braccio di ferro con una politica che voleva mortificarne indipendenza ed autonomia, hanno deciso di prendersi una rivincita e di lasciarla sola e nuda, indicandola come unica responsabile delle difficoltà presenti? Ma questa sarebbe davvero una ingiustificata reazione corporativa e il segno di una regressione culturale che impedisce loro di cogliere quale sia oggi il compito istituzionale della magistratura, senza che possa essere accusata di indebite invasioni di campo, di esercitare una illegittima supplenza.
Commentando la giurisprudenza della Corte europea dei diritti dell´uomo, si è proprio messo in evidenza che ormai spetta sempre a questi giudici "risolvere le più gravi e difficili questioni di diritto civile poste dal cambiamento dei costumi, dalla scienza e dalla tecnica". Questo non è l´effetto di distrazioni o ritardi del legislatore, ma del fatto che la vita propone ormai una molteplicità di situazioni sempre nuove e sempre variabili, che nessuna legge può cogliere e disciplinare nella loro singolarità, in un inseguimento continuo e impossibile. Ad essa, invece, spetta il compito di fissare i principi di base, che l´intervento del giudice adatterà poi ai casi concreti.
Questo quadro di principi è, e non può che essere, quello della Costituzione italiana, integrato da indicazioni che vengono da documenti internazionali, in primo luogo dalla Carta dei diritti fondamentali dell´Unione europea. Ed è proprio su questo punto che si sta svolgendo il conflitto. Si leggono interpretazioni di norme costituzionali contrastanti con la loro stessa lettera o comunque incompatibili con il sistema complessivo di cui fanno parte. Ma sempre più spesso si va oltre, e si parla e si scrive come se la Costituzione non esistesse. Si fa riferimento a valori, rispettabilissimi, ma che non trovano alcun riscontro nel testo costituzionale, o addirittura contrastano con esso. Da tempo sottolineo che è in atto un tentativo, strisciante ma visibilissimo, di sostituire al quadro dei valori costituzionali un quadro del tutto diverso, portando così a compimento una impropria e inammissibile revisione costituzionale.
Qui è il limite dei dialoghi possibili intorno ai temi in discussione. I principi costituzionali non possono essere revocati in dubbio contrapponendo ad essi altri valori "non negoziabili", che nella religione cattolica troverebbero un fondamento così forte da imporli ad ogni altro. Gustavo Zagrebelsky ha più volte messo in evidenza come ciò apra un conflitto insanabile con la stessa democrazia. E, nella concretezza della vicenda italiana, ciò pone il problema della linea che stanno seguendo le gerarchie ecclesiastiche. Un problema che non si affronta e non si risolve ripetendo, come peraltro è ovvio, che la Chiesa deve poter esercitare pienamente il suo magistero spirituale.
Da anni sappiamo che la Chiesa, venuta meno la mediazione svolta dalla Dc, agisce ormai in presa diretta sulla politica italiana. Lo si ripete in questi giorni. Ma questo vuol dire che essa si comporta come un soggetto politico tra gli altri, sia pure con il peso grandissimo della sua storia, e che come tale deve essere considerata. Entrando direttamente nella politica, la Chiesa "relativizza" sé e i suoi valori, non può pretendere trattamenti privilegiati, che è pretesa autoritaria, incompatibile appunto con la democrazia.
Nella debolezza della situazione politica italiana, nelle sue fragilità e convenienze, la pressione della Chiesa si sta manifestando con una intensità sconosciuta quando, in Francia o in Belgio o in Germania o in Spagna o in Olanda, sono state affrontate, e in modo assai più radicale, analoghe questioni intorno alla vita. La debole Italia più agevole terreno di conquista? Una politica che porta a ritenere inammissibile nel "cortile di casa" quel che è tollerato quando Roma è più lontana?
Inquieta, a questo punto, la quasi totale assenza di un mondo cattolico che conosciamo portatore di un´altra cultura che, ad esempio, si fa sentire con chiarezza nelle questioni riguardanti la pace. Una dura ortodossia avvolge i temi "eticamente sensibili". Nessuno è autorizzato ad avviare una discussione aperta, dunque l´unica via per un vero dialogo, fosse anche il cardinal Martini. La dura reprimenda che gli è stata rivolta, con un´accusa neppure velata di "deviazionismo", aveva evidentemente anche l´obiettivo di impedire che si aprisse una falla, di intimidire chi avesse voluto seguirne l´esempio. Anche nel silenzio di quei cattolici, come nelle aggressività di altri e nel disorientamento di troppa sinistra, scorgiamo la conferma di una debolezza politica e culturale che non autorizza troppe speranze.

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