| RASSEGNA STAMPA | 
FIOM
Una speranza 
cammina (camminava) insieme alla Fiom - Loris 
Campetti ROMA 
17.10.10 
La piazza ha il suo 
leader e grida «sciopero generale» - Rocco Di Michele ROMA 17 
ott 2010
CREMASCHI: LANDINI E AIRAUDO SCELTE SBAGLIATE 29/05/2012
Taranto: operai e cittadini uniti nella lotta! di Fabio Marcelli | 5 agosto 2012 ***
 di 
Pietro Ancona
       "       
Un altro razzista di Pietro Ancona 
Una speranza cammina (camminava) insieme alla Fiom - Loris Campetti ROMA
Manifesto – 17.10.10 
 «Noi non diamo numeri, contateci voi». Bella 
trovata questa della Fiom, in polemica con i ministri che prevedevano tra le 20 
e le 40 mila persone. Noi del manifesto ci siamo consultati e abbiamo concluso 
di non essere capaci di contare così tante persone, operai e studenti «uniti 
nella lotta», colf e migranti, anziani che hanno conquistato quei diritti che 
oggi si vorrebbero togliere ai figli e ai nipoti. C'è chi parla di un milione, 
ma vai a sapere. E, soprattutto, chissenefrega. Ieri nelle strade e nelle piazze 
di Roma ha camminato una speranza: cambiare si può. Speranza che non trova 
albergo nella «Politica» ma oggi ha un orgoglioso compagno di marcia: la Fiom. 
«Meglio lottare danzando che vivere in ginocchio». Saranno quei burloni degli 
operai di Pomigliano che improvvisano una tammuriata in piazza della Repubblica? 
Invece no, sono le Chejan celen, «Zingare spericolate», ragazze e bambine 
inserite in un progetto di alfabetizzazione dei rom. Sono italiane da tre 
generazioni ma non hanno diritto a esserlo per la nostra legge. Ecco perché 
sfilano con i metalmeccanici e addirittura si esibiscono in bellissime danze al 
ritmo di musiche zigane, perché la Fiom ha messo al centro di una delle più 
straordinarie manifestazioni della storia d'Italia proprio i diritti. Quelli 
degli operai a lavorare con dignità, dei sindacati degni di questo nome a 
contrattare, degli studenti a studiare e degli insegnanti a insegnare, dei 
precari a riacciuffare per la coda un futuro oggi negato, dei migranti a essere 
considerati persone uguali alle altre persone. Tutti portatori di diritti 
sociali, civili, di cittadinanza. Diritti indivisibili, da difendere e spesso da 
riconquistare in un'Italia classista e ingiusta rifondata sui privilegi. 
Trascina l'emozione della piazza Maurizio Landini, il nuovo segretario generale 
della Fiom, quando dice che di quel che sta succedendo a Roma e in Italia, di 
questa domanda collettiva di dignità, partecipazione, democrazia, bisogna 
ringraziare, prima e più che la Fiom, gli operai di Pomigliano e di Melfi che 
non hanno chinato la testa di fronte all'arrogante pretesa del padrone di 
scambiare lavoro ipotetico con diritti certi. I diritti, semmai, vanno estesi a 
tutti sennò si riducono a privilegi. Chi è in piazza, come questi operai della 
Fiat, non vuole o non vuole più chinare la testa. Due cortei sterminati hanno 
raccontato tante cose a una Roma finalmente attenta e qua e là anche partecipe. 
La fatica di lavorare e vivere in una crisi spietata, gestita per di più da un 
governo spietato perché «servo», come sta scritto su tanti cartelli. Alcuni un 
po' scorretti. Servo «dei padroni», naturalmente, di «Marchionne cetnico, 
Bonanni maggiordomo» per dire che al servizio del modello sociale preteso 
dall'uomo miracoloso della Fiat di «servi» ce ne sono molti. Più che contro 
Berlusconi, la piazza rossa della Fiom è contro un modello sociale e politico in 
cui l'operaio è pura variabile dipendente, appendice della macchina a cui lavora 
e al tempo stesso combattente arruolato con la forza del ricatto in una guerra 
globale che non è di classe ma tra navi nemiche in cui stanno tutti insieme, 
padrone, manager e tute blu per combattere contro un'altra nave modellata allo 
stesso modo alla conquista, come l'altra, del dio mercato. Mors tua vita mea, 
siamo in guerra. Ne parliamo con gli operai dei «cantieri navali in lotta» che 
ci spiegano come la stratificazione della nave sia classista perché c'è chi rema 
e chi spartisce i dividendi, ma lo è già «al momento della sua costruzione»: 
alla stiva lavoratori immigrati senza diritti, ai primi piani dipendenti delle 
ditte appaltatrici e subappaltatrici e solo ai piani alti i «nostri» operai. Che 
però stanno massicciamente con la Fiom e non si fanno fottere perché sanno che 
il nemico è l'armatore e i suoi caporali. Questa piazza ragiona e grida contro 
un modello sociale che punta sulla guerra tra poveri, disoccupati e 
cassintegrati contro i migranti. Un modello sociale in cui la democrazia 
dev'essere «governante» ed è insieme un optional rinsecchito, fruibile solo per 
i ceti abbienti. Tutto il potere in mano a pochi, in politica come 
all'università, in fabbrica come nei quartieri. Non sopportano Berlusconi le 
centinaia di migliaia di lavoratori, studenti, pensionati che occupano la 
Capitale, e non glie lo mandano a dire. Ma temono, forse ancora più di 
Berlusconi, il partito del potere vero: quello di Marchionne, Marcegaglia e 
Montezemolo che «potranno anche essere alleati di qualcuno, ma non di questa 
piazza», dice un giovane di un centro sociale torinese. È ovvio vedere sfilare 
Emergency che chiede il ritiro delle nostre truppe dall'Afghanistan, dato che la 
Fiom è per il ritiro. È ovvio che sfili Libera per chiede legalità perché la 
Fiom chiede legalità, anzi spiega che la frantumazione del ciclo produttivo con 
la moltiplicazione di appalti e subappalti è l'ascensore che favorisce 
l'appropriazione dell'economia da parte della criminalità. I migranti cercano 
casa, diritti e lavoro e sono ora sparsi ora concentrati negli spezzoni dei 
cortei. Nella Fiom vedono una casa. All'Ostiense lo spezzone Fiom di Reggio 
Emilia è tricolore non per bandiere rigidamente rosse ma grazie alla presenza di 
operai indigeni, africani e asiatici. Dal Veneto sono calati in massa sia gli 
operai di Landini che i giovani dei centri sociali, così come dalle Marche. 
L'orgoglio di essere Fiom, innanzitutto. Gridato da Melfi, da Pomigliano, da 
Mirafiori, dallo spezzone più incazzato che apre il corteo di piazza della 
Repubblica, quello Termini Imerese che in coro canta «sciuri, sciuri, sciuriti 
tutto l'anno, e Marchionne va a jettari u sangu». Precisa la segretaria della 
Fiom siciliana che «da noi gettare il sangue vuol dire faticare». E noi ci 
crediamo. La pensionata di Macerata e la zingara spericolata, il pacifista 
trentino e il cassintegrato autorecluso all'Asinara, il No Tav della Valle di 
Susa e persino i venditori di fischietti chiedono una cosa: la riunificazione 
delle lotte che si incrocia con la riunificazione del lavoro chiesto dagli 
operai arrivati, ancora una volta e più numerosi e decisi di sempre, a Roma. 
«Basta con le escort e le case a Montecarlo», chiede un cartello. Inutile dire 
di cosa si debba occupare la politica, di lavoro, democrazia, diritti, legalità. 
«Di contratti, per dio», grida il pensionato abruzzese. Ma c'è anche chi chiede 
«10-100-1000 Same» portando in corteo uova finte. Di miracoli ieri se ne sono 
visti molti, a Roma: i soggetti organizzati, chi si batte per l'acqua pubblica e 
i beni comuni, chi guida le battaglie contro il precariato, chi chiede un 
reddito di cittadinanza, chi vuole una scuola libera e pubblica chi chiede 
lavoro per sé e galera per i suoi padroni (le maschere dell'Eutelia), tutti 
questi pezzi di mondo hanno iniziato a camminare insieme. C'è addirittura chi 
parla dello «spirito di Genova». Inutile ricordare che anche la Fiom, nel G8 del 
2001, c'era, insieme a chi gridava «un altro mondo è possibile». Il secondo 
miracolo romano è che dal palco tutte queste domande e sensibilità sono state 
raccolte nell'intervento di Maurizio Landini, un operaio speciale che sa parlare 
alla sua gente e al popolo multicolore di piazza San Giovanni. «C'è una domanda 
di cambiamento a cui bisogna dare una risposta». Piace ai comunisti, i 
tantissimi di Rifondazione ma anche del Pdci, del Pcl, di Sinistra critica. 
Piace a Vendola e alla Sel, forse piace anche ai tre eroi che trascinano in 
corteo altrettante bandiere del Partito democratico. E il «nuovo modello di 
sviluppo» di Landini piace agli ambientalisti, con o senza bandiera verde. Tutti 
chiedono la stessa cosa: le lotte devono andare avanti, fino allo sciopero 
generale. Meglio prima che dopo. Lo ricordano senza tregua al segretario 
generale Guglielmo Epifani al suo ultimo comizio da capo della Cgil. Non sono 
eroi, sono però degli esempi. Coccolati da tutti, orgogliosi, rumorosi, 
determinati, allegri persino. Sono gli operai di Pomigliano, quelli dei No a 
Marchionne da cui è partito tutto questo casino che ha ridato una speranza al 
paese. Meglio, alle persone per bene. Coccolati sono anche i tre licenziati di 
Melfi che hanno vinto la causa ma che il padrone tiene fuori dalla fabbrica. C'è 
anche il manifesto in piazza, con i suoi circoli e i suoi giornalisti, i suoi 
stand e il suo grido di dolore. Siamo accolti molto bene in piazza, e persino 
dal palco c'è chi ricorda la resistenza di un giornale amico degli operai, un 
giornale senza padroni, senza partiti e senza soldi. Un giornale schierato, come 
e con questi chissà quanti italiani e migranti di buone speranze. 
 
 
La piazza ha il suo leader e grida «sciopero generale» - Rocco Di Michele ROMA
La piazza ha il suo leader e grida «sciopero 
generale» - Rocco Di Michele ROMA – 
Una giornata liberatoria. Ha distrutto pacificamente seminatori di paura, 
ministri con la poltrona in liquidazione e media senza dignità che han fatto 
loro il coro. La prima megamanifestazione di Maurizio Landini è coincisa con 
l'ultima di Guglielmo Epifani. Ma non è stato un passaggio di consegne. Nella 
Cgil attuale si usano magari le stesse parole, ma i significati sembrano molto 
differenti. E i metalmeccanici sono per storia, numero, ruolo e modo di 
ragionare «costretti alla concretezza». Si è visto subito che questa era la 
piazza di chi si è già accorto che non si può più arretrare, e Andrea Rivera, 
con il suo monologo in musica, ha saputo cogliere molte sfumature di questo 
sentimento. Non si può più fare un passo indietro perché non c'è più terreno 
alle spalle; margini salariali e diritti esigibili sono ormai ridotti ai minimi 
termini (neanche le sentenze dei giudici, come a Melfi, riescono a ottenere 
immediata esecuzione). La cassa integrazione, in tutte le sue varianti, ha 
toccato cifre record; ma soprattutto comincia a scadere per fette molto 
consistenti di lavoratori. Non c'è più molto tempo, insomma, per «attendere» che 
accada qualche miracolo (la caduta di Berlusconi, la ripresa, ecc). A questa 
doppia esigenza - decisione e tempestività - Maurizio Landini ha dato risposte 
chiare e nette, sottolineate più volte da applausi o autentiche ovazioni. La 
crisi è il discrimine su cui decide tutto. «Per 20 anni ci hanno detto che 
bastava lasciar fare al mercato, ora abbiamo una finanza senza regole, il record 
di evasione fiscale, una precarietà senza precedenti e una ridistribuzione della 
ricchezza a danno di chi lavora». Una «società così è inaccettabile, bisogna 
ribellarsi per cambiarla». Davanti a un governo e un'imprenditoria che 
vorrebbero «uscire dalla crisi» cancellando un secolo di conquiste e diritti, 
cambiando solo gli assetti di potere, c'è invece una proposta che suggerisce di 
uscirne con un cambiamento radicale: «un altro modello di sviluppo, dove si 
decide cosa e come produrre, i beni comuni da difendere, cancellare la 
precarietà, aumentare i salari». Una visione generale, non limitata ai 
metalmeccanici. Ma qui è stata giocata la partita per ridurre le relazioni 
industriali tra impresa e lavoro a una mera formalità. Qui il conflitto vede 
«mettere in gioco la stessa democrazia», che «non si può fermare davanti ai 
cancelli della fabbrica». Qui è scattata - con l'imprevisto 36% di «no» contro 
il «modello Pomigliano» e l'orgoglio dei «tre di Melfi» - la reazione della 
dignità contro chi voleva costringere a scegliere tra lavoro o diritti. Qui il 
voto dei lavoratori su ogni piattaforma o accordo è diventata una rivendicazione 
da affrontare con una legge. Dai metalmeccanici è partita l'unica risposta di 
massa che ha assunto un peso anche politico. È forte l'attacco alla Fiom e alla 
Cgil, basta leggere gli allarmi di Maroni o i desideri di morte di Sacconi. «Ma 
non vogliono soltanto far fuori noi; vogliono cancellare il diritto delle 
persone a contrattare, a esser liberi». Di fronte a chi ti dice, come 
Marchionne, «se vuoi sapere qual è il piano industriale, devi prima firmare un 
accordo che generalizza il modello Pomigliano e magari lo peggiora anche», non 
basta più una vertenza di categoria, per quanto seria e dura. «Bisogna 
riunificare i diritti, fare contratti nazionali che mettono insieme più 
categorie». C'è insomma da vincere una battaglia generale, sindacale e politica, 
e quindi la Cgil dovrebbe proclamare un «sciopero generale». Non è semplice per 
Epifani iniziare a parlare. La piazza invoca «sciopero, sciopero». La segreteria 
della Fiom al completo gli si mette al fianco, intorno al microfono. È regola 
antica, in Cgil: il segretario generale si rispetta. La folla che è rimasta 
capisce e fa silenzio, tranne una cinquantina di persone che sventolano un paio 
di bandiere di un ignoto «Red bloc» e fischiano per un po'. Epifani attacca il 
governo, la sua «politica industriale» inesistente, ma non affonda più di tanto 
su Confindustria; difende il ruolo del contratto nazionale, ma come se - proprio 
su questo - non si fosse consumata una rottura da cui le imprese non sembrano 
intenzionate a tornare indietro. Delinea un iter di mobilitazioni che vede al 
centro la manifestazione confederale del 27 novembre e solo dopo - come se 
questa giornata non avesse già un significato e una portata generali, e «se non 
avremo risposte» - si andrà avanti «anche con lo sciopero generale». Tempi 
lunghi, mosse caute, rinvii a quando avrà lasciato il timone della Cgil nelle 
mani di Susanna Camusso. E magari lo scenario politico sarà più dialogante 
dell'attuale. Due visioni diverse, con molte parole in comune. Ma la giornata di 
ieri, questo è chiaro, segna un giro di boa nella consapevolezza di sé di 
un'opposizione sociale che sembra ora aver ritrovato un baricentro solido. 
«Andiamo avanti, rispettiamo le vostre posizioni, manifestate», dice la leader 
di Confindustria Emma Marcegaglia alla Fiom. Ma avverte: bisogna «guardare 
avanti». Perché se si guarda a «un modello di relazioni sindacali che non ci 
sono più si ha un solo risultato, uccidere i lavoratori. Se si inneggia a 
qualcosa che non esiste più questo condanna il Paese». Secondo il segretario dei 
meccanici Uil, la manifestazione della Fiom «parte da motivazioni che non 
riguardano il merito, ma sono politiche e si alimentano del contrasto con le 
altre sigle metalmeccaniche».