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Un notevole contributo al recupero della memoria delle lotte del popolo siciliano nel libro:
Dai Fasci siciliani alla Resistenza a cura di Angelo Ficarra (Anonimo Siciliano)

 Perché anonimo siciliano 
    In onore e gloria dei tanti eroici caduti nelle lotte contro la barbarie della schiavitù, per la libertà e per la dignità umana. Dei  tanti che combatterono con Euno, Ducezio, Spartaco crocifissi a migliaia sulla consolare da Capua a Roma, condannati all’anonimato. Per i tanti dimenticati nelle galere dei potenti di turno e che pure con le unghia insanguinate avevano tentato di graffire il loro urlo per la verità che non abbiamo saputo raccogliere.
    Ai tanti, donne e uomini, che hanno pure “misu u coddu ni la furca di la libertà”, come gridava il poeta Buttitta nel pianoro di Portella della Ginestra per il riscatto della condizione umana. Condannati da chi ha disegnato, anche in nome del cielo, un assetto del mondo all’insegna della violenza e della sopraffazione per ridurre gli altri esseri umani in qualche modo in schiavitù. Condannati ad essere cancellati dalla storia. Cancellati loro e le loro idee. Condannati perchè hanno osato dire di no e perciò eretici. Rimossi per accreditare più facilmente la vulgata, lo stereotipo con cui hanno diffuso la menzogna che gli ha consentito di costruire il loro potere.
    Una umanità infinita, di perseguitati, di confinati, diseredati, di morti di fame e di freddo nei lager, di bruciati vivi nei forni crematori, dalle donne dell’8 marzo della fabbrica americana, agli operai della Tyssen Group, di annegati nell’indifferenza ai piedi delle mura di Gerico o di Lampedusa perchè diversi, passando per il baratro della ragione delle camere a gas della follia fascista e nazista. Non gridano vendetta ma vogliono memoria per svelare la storia. 
Angelo Ficarra

ANGELO FICARRA
Recupero e rivisitazione della memoria storica

    Aprile 2013, Palermo. Questa città vive un particolare momento storico: sarà scoperta una lapide in ricordo dei caduti per la libertà nel 70° della Resistenza e nel 120° dei Fasci siciliani. È un evento straordinario che avviene nel solco di un tentativo di recupero popolare e di massa della memoria storica. Percorso nel quale, in questi ultimi anni, è particolarmente impegnata l’ANPi Palermo e le ANPI siciliane. Certamente un merito particolare, in un momento difficile della storia del nostro Paese, va a tutte le forze civili e democratiche di questa città, con le quali promuoviamo questo percorso insieme alle varie espressioni della cultura coinvolte e quelle che speriamo di riuscire a coinvolgere.
     Nel proporre all’incontro questo titolo: “Dai Fasci siciliani alla Resistenza”, siamo coscienti della forzatura, di ordine metodologico, che suscita l’accostamento in un dibattito di due eventi certamente entrambi straordinari ma che si svolgono in momenti storici non solo lontani ma anche diversi. Ci ha spinto a questo accostamento una serie di riflessioni scaturite lungo il percorso seguito nel tentativo di proporre un recupero popolare e di massa della memoria storica di questi eventi. Tentativo nel quale, dopo i due importanti e fondamentali convegni storici per quanto riguarda i Fasci siciliani, in occasione dell’ottantesimo anniversario ad Agrigento e per il centenario a Palermo e a Piana degli Albanesi, in questi ultimi anni è impegnata l’ANPI.
     Queste riflessioni che vogliamo tentare di approfondire, seguono le considerazioni che fa Giuseppe Carlo Marino nella prefazione a Nicola Barbato, primo quaderno dell’ANPI Palermo che dobbiamo all’impegno prezioso del prof. Vittorio Riera.
Scrive Marino: «La ricostituzione e la difesa di una memoria collettiva, trova in Sicilia nel passato dei movimenti popolari e delle loro lotte per la giustizia sociale, le radici profonde dell’antifascismo militante che animò i combattenti siciliani da varie parti d’Italia affluiti, nel nord ancora sotto il tallone nazifascista, ai ruoli della Resistenza e della guerra di Liberazione ». Sono proprio quelle radici che hanno animato uomini come Concetto Marchesi giovanissimo studente del Fascio dei Lavoratori di Catania, redattore diciottenne di Lucifero e poi rettore dell’Università di Padova che fa l’appello ai giovani per la Resistenza; come Francesco Lo Sardo del Fascio dei Lavoratori di Naso, antifascista arrestato lo stesso giorno con Gramsci, torturato e morto a Poggioreale nelle carceri della dittatura fascista; Giovanni Orcel studente del fascio dei lavoratori di Palermo arrestato durante le manifestazione di solidarietà al gruppo dirigente dei Fasci siciliani sotto processo, poi segretario della Fiom di Palermo, assassinato nel 1920 durante il biennio rosso dalle squadracce fasciste mafiose; Nicola Alongi dirigente del fascio di Prizzi anch’egli assassinato nel 1920 durante il biennio rosso. Carmelo Norato di Isnello e Antonino Verro da Corleone trucidati nella terribile strage di Cefalonia, parente quest’ultimo di Bernardino Verro glorioso dirigente dei Fasci. E infine Pompeo Colajanni che sceglie il suo nome di battaglia proprio nelle radici di quelle lotte, divenendo il mitico liberatore di Torino, Comandante “Barbato”. Questi sono solo alcuni nomi esemplari di un retaggio ideale e straordinario costituito dal grande movimento dei Fasci siciliani che coinvolse, alla fine dell’Ottocento, una gran parte del popolo siciliano e che fu stimato come il più grande movimento di lavoratori in Europa dopo la Comune di Parigi. Ma l’elemento sul quale vogliamo soffermarci e porre alla nostra riflessione è un altro, per entrambi gli eventi registriamo un fatto oggettivo: per entrambi non c’è stata una promozione popolare della memoria; non c’è stata una cultura della memoria. Sul movimento dei Fasci siciliani dobbiamo parlare addirittura di una totale rimozione della memoria. Se chiediamo ai giovani, ma anche ai non più giovani, che cosa furono i Fasci siciliani ci troviamo spesso di fronte ad un imbarazzato silenzio e questo in Sicilia come in tutta Italia.
     Eppure gli obiettivi avanzati ed estremamente moderni di questo movimento della fine dell’Ottocento, la straordinaria partecipazione protagonista delle donne siciliane, i momenti eroici di lotta, di riscatto e di difesa della dignità umana, ne fanno una delle pagine più gloriose della storia del popolo siciliano. Con il movimento dei Fasci il proletariato italiano si poneva «al centro delle simpatie e dei pensieri del proletariato internazionale»1.
    Anche sulla Resistenza, a parte l’ovvia considerazione che il teatro di questi eventi è stata la parte continentale e nord del nostro paese e quindi l’ovvio diverso profondo coinvolgimento e impatto emotivo che questo ha determinato sulle popolazioni, rimane l’incomprensibile silenzio, soprattutto nella Sicilia occidentale, sull’ampia partecipazione siciliana alla Resistenza e alla lotta di Liberazione e, cosa ancora più grave, la non memoria popolare dell’antifascismo siciliano. A questo riguardo dobbiamo dire che ha certamente e pesantemente influito quello che succedeva in quel momento in Sicilia: le forze democratiche e popolari erano investite in quel periodo dalla lunga terribile scia di sangue scatenata dalle forze impegnate, tra mafia, separatismo, rottami della monarchia e del fascismo, a contrastare quello che la borghesia feudale mafiosa e neofascista chiamava il “vento del nord”2. Riteniamo che capire come questo sia potuto accadere apra scenari nuovi di ricerca che ci sembra doveroso e importante approfondire. Per entrambi gli eventi, di fatto, si è sottratto al popolo siciliano l’insegnamento che deriva dalla storia di fulgidi esempi morali ed ideali. Si è impedito che con essi fosse rielaborata e costruita una memoria collettiva identitaria di cui il popolo siciliano potesse essere orgoglioso. Va pure tenuto conto di una significativa diversità fra la Sicilia occidentale e quella orientale soprattutto in merito alla memoria della Resistenza, non solo per il diverso radicamento della mafia quasi assente, almeno macroscopicamente, fino al dopoguerra nella Sicilia orientale, ma anche per il differente andamento degli eventi bellici che vide nella Sicilia orientale un maggiore coinvolgimento delle popolazioni.
    Dobbiamo avere chiaro che l’assenza e la rimozione della memoria, anche se a livelli diversi fra i due eventi, hanno segnato una sconfitta nella costruzione egemonica di una cultura dei diritti umani e della liberazione dai residui di “servaggio” feudale allora ancora largamente presenti nell’isola. È stato l’affermarsi di una cultura che ha negato al popolo siciliano la modernità, la nobiltà e la dignità del movimento dei Fasci costruendo lo stereotipo della jacquerie di masse incapaci e ignoranti al limite affette da patologie lombrosiane. Addolora, ma è significativo sottolinearlo, che questo sia avvenuto anche con la partecipazione di esponenti alti della cultura italiana. Fra questi si distinse Benedetto Croce il più grande intellettuale della borghesia della prima metà del Novecento, il quale dopo il delitto Matteotti, sia detto per inciso, continuò a votare in parlamento la fiducia al governo Mussolini e la mantenne sino alla “ufficiale” proclamazione della dittatura nel gennaio del 1925.
    A questo punto dobbiamo porci una domanda fondamentale: perché è mancata la memoria? Se rileggiamo i fatti tentando di liberarci dagli stereotipi che hanno condizionato la cultura dell’epoca, inseguendo soprattutto questo nodo di ricerca, possiamo tentare di dare una risposta a tale domanda. Intanto troviamo che in entrambi gli eventi c’è stato un sistematico uso terroristico della violenza ammantata dalla sacralità dello Stato. E dopo la violenza, per entrambi gli eventi, una migrazione di massa: un esodo biblico di un milione di siciliani tra la fine dell’Ottocento e i primi del Novecento suggellerà la tragica fine della vicenda dei Fasci come analogo esodo concluderà l’epopea del movimento contadino nel secondo dopoguerra. Il terrore fu seminato da Crispi e dal generale Morra di Lavriano imposto di fatto dalla monarchia non solo con le stragi che oggi ricordiamo, forte di un esercito di ben 44.000 uomini a fronte di uomini e donne inermi, ma anche con la proclamazione dello stato di assedio che sarà protratto per quasi un anno per consentirgli di spargere terrore e di adottare, sotto una parvenza di legalità, una serie di pericolose limitazioni delle libertà: dalla libertà di stampa all’abuso del confino di polizia, perlustrazioni e rastrellamenti di interi paesi condotti con metodi indegni di una nazione civile. A riguardo ricordo le splendide immagini di un film di Rosi che riguarda il secondo dopoguerra. L’esodo fu vissuto da parte delle popolazioni certamente come una tragedia, ma anche con la fierezza di una coraggiosa risposta di uomini e donne che non rinunciarono alla difesa della dignità umana e agli ideali di civiltà per i quali si erano battuti. Significativa la costituzione a New York di una società di mutuo soccorso intitolata ai Fasci siciliani.
    Il modo con cui lo Stato con Crispi, nel pieno dello scandalo della banca romana e burattino nelle mani della monarchia, arriva alla tragica conclusione della vicenda dei Fasci ha segnato un pericoloso grave precedente di quello scellerato connubio Stato mafia che tanto caratterizzerà gli eventi del secondo dopoguerra fino ai giorni nostri. Analoghe cancellazioni della memoria collettiva, soprattutto, come abbiamo già sottolineato, per la Sicilia occidentale, avvengono per l’antifascismo e la resistenza; questo a tutt’oggi è poco indagato e ce ne dobbiamo sentire in parte anche noi responsabili. De Felice in Mussolini l’alleato riporta le agitazioni del 1941 per gli approvvigionamenti e contro il carovita, spesso solo di donne.
In tutta Italia un centinaio di manifestazioni di donne. Di queste manifestazioni la metà avviene in Sicilia. Si deve supporre che a Palermo l’antifascismo sia stato un fenomeno diffuso se Mussolini, nel 1941, impone il trasferimento di tutti i funzionari «nativi dell’isola». Poco più di mille pubblici impiegati furono in tronco trasferiti fuori dalla Sicilia. A Palermo c’è un cantore popolare dell’antifascismo Peppe Schiera che nei mercati popolari canta i suoi bollettini di guerra: «Bollettino di guerra 253. Una corazzata/ da nostra armata/ si scontrò cu ’na pignata/ E arristò tutta ammaccata./ Ma cù ?/ ’ A corazzata ».
    Nella storia della Resistenza italiana, che «non fu un fenomeno improvviso di ribellione contro il regime di Mussolini ma il risultato di un complesso processo di opposizione alla dittatura», giustamente si sottolinea l’importanza degli scioperi del marzo 1943, con cui ebbe inizio l’attacco al fascismo. Si ricorda il primo a Torino il 5 marzo cui partecipano inizialmente pochi operai. Poi la lotta si espanderà anche a Milano, e via via giù fino alle Puglie. Forse è lo iato, determinato in Italia tra il Sud liberato e sotto amministrazione militare angloamericana con tutte le sue preoccupazioni essenzialmente anti sovietiche, a contribuire, forse non da solo, a obliterare l’importante contributo siciliano alla lotta di Liberazione. Così nella “nostra” storia della Resistenza non viene citato lo sciopero al cantiere navale di Palermo. Eppure è una delle astensioni più ampie di quel periodo. Avviene addirittura il 7 febbraio 1943 ben quasi un mese prima di quello di Torino. Si astennero dal lavoro ben 1300 operai del cantiere navale. Un secondo sciopero a Palermo si ebbe il 31 marzo 1943 si fermarono per 30 minuti tutti gli addetti delle aziende tranvie e autobus della città (in R. De Felice, Mussolini l’alleato). Una nota anonima segnala una manifestazione delle donne l’8 marzo in via Alloro a Palermo contro le autorità fasciste. In seguito a questa segnalazione Mussolini chiede al prefetto spiegazioni (Lucia Vincenti, Storia degli ebrei a Palermo durante il fascismo. Documenti e testimonianze, Palermo, 1998).
    E ancora il silenzio sulla straordinaria azione di “sabotaggio” del 10 giugno 1943 che neutralizza l’aeroporto Gerbini a Catania, base importante della flotta aerea tedesca nell’Isola. A questa azione partecipa un gruppo di giovani partigiani, studenti antifascisti dell’Università di Catania facenti capo alla complessa figura di Antonio Canepa di Palermo, collegato con il fratello Luigi alla Società Studi Orientali, fondata dal giovane comunista Ettore Gervasi, presso il circolo filosofico palermitano, di cui fecero parte tanti antifascisti fra cui il professore Sellerio e i suoi figli Lia e Ugo. Canepa poi diventa professore all’Università di Catania, partigiano in Toscana e, con Varvaro, esponente dell’ala sinistra del separatismo in Sicilia.
    All’azione, condotta d’intesa con i servizi segreti inglesi, partecipano cinque sabotatori inglesi sbarcati da un sommergibile e accolti e guidati da giovani antifascisti studenti universitari. Quell’atto di resistenza armata al nazifascismo impedì che la forza aerea italo-tedesca si alzasse in volo in difesa di Pantelleria, che l’indomani 11 giugno, veniva liberata dagli anglo-americani. (Nicola Musumarra, La Resistenza italiana in Sicilia). «L’indomani iniziarono le operazioni anglo-americane per l’occupazione di Pantelleria senza l’ostilità dell’aviazione italo-tedesca che non poté decollare dal distrutto aeroporto di Gerbini [oggi in pratica Sigonella]».
    Poi ancora «L’eroica insurrezione di Mascalucia, 2 agosto 1943, contro i tedeschi costituisce senza dubbio il primo episodio di rilievo della guerra di liberazione antifascista; l’atroce eccidio di Castiglione di Sicilia, 12 agosto 1943, con sedici morti selvaggiamente trucidati per le strade, e perfino all’interno delle loro case» (Marcello Cimino, Le pietre nello stagno).
     Bisogna tenere presente che questi eventi avvengono in parte in un periodo in cui è ancora in piedi, anche se avviata allo sfacelo e alla tragedia, la dittatura fascista e che sono assenti o estremamente difficili e pericolosi i collegamenti con il resto del Paese. È quindi in parte comprensibile, sul momento, l’assoluto silenzio imposto dalla censura allora.
    Oggi dobbiamo chiederci perché il perdurare di questo silenzio, perché sia poi mancata una elaborazione storica. Una parziale risposta certamente ce la da, ancora una volta, la lunga terribile scia di sangue che sconvolge la Sicilia soprattutto quella occidentale. Ancora una volta la violenza, la violenza che porta alla strage del pane, ottobre 1944 a Palermo 23 morti di cui molti giovanissimi; e poi la strage di Portella, l’assalto alle Camere del lavoro, lungo la strategia che porta alla eliminazione sistematica dei gruppi dirigenti dell’antifascismo e della sinistra; in Sicilia, nel Sud liberato, il fascismo è caduto ma la violenza fascista opera sotto la copertura della mafia; la violenza fascista continua a seminare il terrore. Il popolo è costretto a difendersi. Emigra una seconda volta, emigra col marchio di omertoso mafioso da una terra in cui i rappresentanti dello Stato dicono che la mafia non esiste, emigra nel bacino della Rur, va a morire a Marcinelle, nelle periferie della Torino della Fiat che aveva pure contribuito a liberare. Emigra a fronte di una apparente impotenza dello Stato e con la benedizione del cardinale Ruffini che con pietà cristiana prova anche a giustificare il massacro di Portella.
    Ma non basta fare riferimento solo alla violenza che lo Stato sembra non sapere contrastare: dietro l’impotenza dello Stato c’e’ ben altro, si avanza una significativa ipotesi di ricerca: una recente pubblicazione del centro studi Pio La Torre, La mafia, il fascismo, la polizia, scritta da Vittorio Coco, ricostruisce la storia della istituzione, da parte della dittatura fascista, dell’Ispettorato Generale di Pubblica Sicurezza nel 1933 in Sicilia. Si tratta di un corpo speciale voluto dalla dittatura fascista che lo sperimenta per la prima volta in Sicilia con il pretesto di condurre una «seconda e meno pubblicizzata campagna antimafia », come dice lo storico Salvatore Lupo nella prefazione, ma che serve essenzialmente come silenzioso e agile strumento di repressione dotato di poteri molto ampi che gli consentono di tenere più agevolmente sotto controllo l’antifascismo, baipassando la fase pubblica giudiziale e i processi ed utilizzando prevalentemente l’istituto del confino di polizia. A dirigerlo c’è prima Giuseppe Gueli di Ribera. Subito dopo ci sarà Ettore Messana di Racalmuto. Questo corpo speciale di repressione, dopo la positiva per il fascismo sperimentazione siciliana, viene replicato nel 1942 in Venezia Giulia con il compito specifico della lotta antipartigiana. Siamo nel momento dell’invasione fascista della Jugoslavia con l’annessione della Slovenia e la istituzione della provincia di Lubiana. A capo c’è ancora Gueli con sede a Trieste nella terribile “villa Triste”, luogo di violenze e torture dei prigionieri ed esecuzioni sommarie dei partigiani. Questo organismo speciale di persecuzione, dopo l’8 settembre 1943, a Trieste passerà sotto la direzione delle SS tedesche, e continuerà ad operare in Sicilia, anche dopo la liberazione angloamericana del 1943, con i famigerati “nuclei” (secondo la mia memoria allora ragazzino nella Borgalino di Canicattì), luoghi di tortura e di terrore per le urla strazianti che sistematicamente ne provenivano. Il questore a Lubiana è Ettore Messana3 la cui specifica attività in quell’orrido contesto è facilmente immaginabile. Poi passa a Trieste dove opera con le SS. Visti i suoi precedenti è molto probabile si sia occupato della risiera di San Sabba. Il nome di Ettore Messana risulta nell’elenco dei criminali di guerra. Ebbene questo inquietante personaggio lo ritroviamo a capo della Polizia in Sicilia, responsabile dell’Ispettorato Generale di PS nominato dal Governo Bonomi (i Governi Bonomi vanno il I° dal 18 giugno 1944 al 11 dicembre 1944 e il II° dal 12 dicembre 1944 al 20 giugno 1945, fonte Senato della Repubblica). Il capo del Governo Ferruccio Parri in una intervista di Marcello Cimino sul separatismo in Sicilia, dice di essersi, subito dopo essere stato eletto presidente del consiglio il 21 giugno 1945, recato in Sicilia ed avervi incontrato il generale Berardi, comandante militare dell’isola, e l’Ispettore Generale di Polizia Messana. (Marcello Cimino, Un’inchiesta sul separatismo siciliano, Istituto Gramsci Siciliano 1988). Attenzione questo avviene appena una diecina di giorni dopo gli oscuri fatti di Randazzo dove in una imboscata viene eliminata l’ala sinistra del separatismo con l’assassinio di Antonio Canepa e di due giovani separatisti avvolto da un qualche non meglio definito mistero. A dirigere l’operazione c’è l’Ispettorato Generale di P.S. con il suo capo Messana. Questo fascista della prima ora, che si era già reso responsabile dell’orrendo massacro di 22 contadini nella piazza di Riesi l’8 ottobre 1919 e, l’indomani, della fucilazione di un sottufficiale dei carabinieri che si era opposto all’ordine di aprire il fuoco sulla folla, non è da escludere che operasse in Sicilia addirittura nel periodo della strage del pane a Palermo (19 ottobre 1944 via Maqueda circa 30 morti) come suggerirebbero le modalità nazifasciste di comportamento di un ignaro plotone dell’esercito che, appena arrivato nella notte dalla Sardegna, posto agli ordini del sottotenente Carmelo Lo Sardo di Canicattì, dopo una strana inspiegabilmente lunga sosta alla Questura interviene direttamente con lancio di bombe a mano su una folla inerme fra cui molti giovanissimi (Lino Buscemi La strage del pane in Giuseppe Carlo Marino La Sicilia delle stragi).
    Questo quadro diventa compatibile con la direttiva della ormai moribonda repubblica di Salò tesa a costituire nel Sud liberato dagli angloamericani e in Sicilia in particolare una testa di ponte per coordinare la rete neofascista paramilitare e stragista con gruppi cospicui della Decima Mas col fine di gestire la transizione dell’apparato fascista nel nuovo stato, cosa che, come abbiamo visto, è avvenuta e ai più alti livelli di responsabilità. Basta scorrere i nomi e le storie dei primi questori e prefetti a Palermo di quel periodo. (Giuseppe Casarubea, Morte di un agente segreto).
    Questo è avvenuto 120 anni fa. Questo è avvenuto 70 anni fa. Questo quadro combinato con gli scenari da Guerra fredda che si andavano delineando e con conseguenti comportamenti anti movimenti popolari di liberazione degli eserciti anglo americani, ci dà contezza della macchina mostruosa di repressione e di morte che determina l’assetto del governo di una regione e la costruzione di una cultura egemonica inquinata, ci spiega in parte anche la difficoltà di mantenere viva la memoria, in termini popolari, della Resistenza e del contributo importante dei siciliani alla lotta di Liberazione. E questo al di là di alcuni dovuti, controllati, appena sopportati momenti ufficiali.
    In questi ultimi anni, e soprattutto in quest’ultimo periodo di maggiore impegno dell’ANPI nel recupero della memoria, ci è capitato e ci capita di imbatterci in storie straordinarie di partigiani, di confinati, di perseguitati politici, di deportati generalmente sconosciuti nei luoghi di provenienza, anche se inseriti, non sempre, in qualche elenco. Sono, e questo è estremamente positivo, soprattutto i giovani che ci dicono del nonno o di qualche altro familiare impegnato nella Resistenza, fra i perseguitati politici, i deportati, i confinati. Alcuni nomi esemplificativi: per caso, due anni fa, si “scopre” la storia di Giovanni Ortoleva, eroico partigiano di Isnello il cui nome era scolpito su una stele in memoria e ricordo della strage di Salussola. Dopo la straordinaria accoglienza della comunità di Isnello al suo partigiano l’incontro con il partigiano della brigata garibaldina “Carlo Pisacane” Mauro Zito e poi la storia di tanti altri partigiani delle Madonie, la storia terribile di Vanni Maiorana e poi quella dei tanti caduti e dei sopravvissuti alla strage di Cefalonia con le memorie di Giuseppe Benincasa.
    In questi giorni viene presentato il libro di Enzo Barnabà Il Partgiano di piazza Martiri, autore anche dei Fasci siciliani a Valguarnera, si tratta del partigiano Salvatore Cacciatore di Aragona, sconosciuto nel paese d’origine, alla memoria del quale è stata dedicata, assieme ad altri tre partigiani, la piazza principale di Belluno. Questa non conoscenza ci ha privato di momenti alti di una testimonianza umana, fatta di altruismo, di solidarietà ci ha privato di momenti di profonda partecipazione, ha impedito che la rielaborazione collettiva del dolore e della terribile devastante azione della violenza, divenisse Storia e quindi patrimonio identitario di un popolo.
    Ad Auschiwiz, ha scritto Primo Levi in Se questo è un uomo, non ci hanno solo torturato ma ci hanno levato l’anima, ci hanno inculcato l’odio a volte anche contro noi stessi.
    Stesso processo è avvenuto per i Fasci siciliani. Solo tardi, dopo tanti anni abbiamo potuto conoscere lo strazio dei familiari cui fu impedito, nella strage di Caltavuturo, di avvicinarsi ai propri cari lasciati all’addiaccio nella notte di quel 20 gennaio 1893 in balia dei cani latranti; o il pianto dei contadini che assistevano impotenti al trasferimento, fra due file di soldati, delle gloriose donne di Milocca, l’odierna Milena, incatenate le une alle altre, che trovavano la forza di cantare l’inno del lavoro per incoraggiare i lavoratori a resistere e a lottare. Sono pagine strazianti di una umanità che ci da una lezione alta di civiltà e di dignità umana. Civiltà espressa nell’articolo uno dello statuto del fascio dei lavoratori di Modica che recita: «Art. 1. È istituita fra tutti i lavoratori d’ambo i sessi e d’ogni nazionalità, residenti in Modica e aderenti al presente Statuto, la società il Fascio dei Lavoratori. [...] Art. 5. I soci dichiarano che la loro Società, come tutti gli aderenti, riconosce quali doveri tutti gli sforzi tendenti a reclamare i diritti dell’uomo e del cittadino senza distinzione di razze e di nazionalità. Per lo che considerano “nessun dovere senza dritto e nessun dritto senza dovere”».
    Pensate siamo nella Sicilia del 1892-94. Oggi a oltre centoventi anni di distanza ci chiediamo ancora come tanta tragedia possa essere stata rimossa e rimanere di fatto quasi sconosciuta a livello di opinione pubblica italiana e siciliana per tutti questi anni. Con la cancellazione di quello che la Volks Tribune di Vienna definiva il primo grande movimento di massa proletaria che si veda in Italia, e che fu il più grande movimento di lavoratori in Europa dopo la Comune di Parigi, fu inferto un terribile colpo al processo di costruzione dello stato democratico liberale nel nostro Paese. E fu un colpo che contribuì molto a ulteriormente caratterizzare in modo distorto il processo unitario non solo impedendo, di fatto, un diverso sviluppo del Sud sottratto allo strapotere di una borghesia agraria ottusa, feudale e mafiosa, ma cronicizzando, con la sua emarginazione, quella che sarà chiamata la questione meridionale. Fu introdotto il germe della precarietà della democrazia in Italia che avremmo tristemente sperimentato da lì a poco: Crispi scioglierà subito dopo il partito socialista il 22 ottobre 1894; il siciliano marchese Di Rudinì e il suo sottosegretario agli interni, il calatino Giorgio Arcoleo, saranno i veri artefici delle cannonate di Bava Beccaris a Milano nel 1898. E poi in tutto il novecento: prima il fascismo e poi ancora ahimè la Sicilia dove quella precarietà avrebbe sempre più consentito l’affermarsi della mafia, a partire da una delle due Sicilie, quella occidentale, fino a quella lunga scia di stragi e di attentati impuniti dal secondo dopoguerra ad oggi.
    È proprio partendo dalla constatazione della rimozione totale dalla memoria popolare dell’epopea dei Fasci siciliani, che risalendo a ritroso alla ricerca delle cause di tale rimozione ci si imbatte nel clima di terrore e di morte che ciò ha reso possibile. Ad un tempo si coglie l’opera di mistificazione, la creazione dello stereotipo che doveva rendere possibile quella cancellazione. Fu jacquerie, non fu jacquerie; fu ribellismo atavico da fare risalire alle guerre servili e storicamente perdenti? Forse è meglio non ricordare?

        «Certamente - scrive Luigi Ficarra in una sua nota - va riproposta una rilettura critica, liberata dallo stereotipo della vandea e della jacquerie che purtroppo trovava motivazioni e terreno fertile nella cultura nazionale di fine ottocento alimentata peraltro anche dalle aberranti posizioni crociane al limite del razzismo”.
         «Lo stereotipo della jacquerie e del ribellismo atavico da fare risalire alle guerre servili e storicamente perdenti, è errato. Vi  furono fenomeni isolati di jacquerie, alcuni dei quali pure sapientemente provocati ed organizzati dalla classe dominante, come quello di Valguarnera, ma rimasero nel complesso - va sottolineato - del tutto marginali, secondari. Centrale e dominante essendo invece, nei Fasci, il momento dell’organizzazione e della partecipazione consapevole di un intero popolo ad una vera e propria lotta di liberazione dai residui di “servaggio” feudale ancora largamente presenti nell’Isola».

    Quindi violenza e terrore. Una lunga scia di sangue ha macchiato per oltre un secolo la nostra storia. Quotidiana barbarie, frutto non solo di quella “banalità del male” come disse la Harendt del nazismo che avrebbe continuato a segnare tutto il novecento fino ad oggi, (e quante cose ci dicono parole come Genova Bolzaneto, Stefano Cucchi,) ma lucida tragica conseguenza di una strategia del terrore che serve a segnare una terribile egemonia, a umiliare i deboli quasi non fossero esseri umani, a cancellare non solo le vittime ma anche ad impedirne, rendendola perseguibile, la memoria e con essa il sogno di una società liberata dalle condizioni di schiavismo feudale in cui si potesse parlare di solidarietà umana. Questo ci deve rendere consapevoli non solo dell’enorme bisogno di antifascismo come fondamento a salvaguardia della democrazia, ma anche del lungo non facile sforzo per un recupero di massa della memoria delle lotte del popolo siciliano per la rottura della subalternità, per la difesa della dignità umana e per la liberazione definitiva dalla mafia.
    Inauguriamo oggi con la Città di Palermo dopo 120 anni, il largo Fasci siciliani; dopo 120 anni scopriamo questa lapide in via del Parlamento nel 70° della Resistenza e nel 120° dei Fasci siciliani:

        AL N° 32 DI QUESTA VIA SI CELEBRO’ NELL’APRILE DEL 1984  DAVANTI AL TRIBUNALE MILITARE  DI  GUERRA PERDURANDO LO STATO D’ASSEDIO IL PROCESSO AI DIRIGENTI DEL MOVIMENTO DEI FASCI SICILIANI
        LA CITTA’ DI PALERMO E L’ANPI COMANDANTE BARBATO AI CADUTI PER LA LIBERTA’ L’UGUAGLIANZA E LA DIFESA DELLA DIGNITA’ UMANA NEL 70° DELLA RESISTENZA E NEL 120° DEI FASCI SICILIANI
       
 
                                                                                             APRILE 2013

    Questa lapide sancisce l’impegno comune per un recupero della memoria della Città di Palermo sede del comitato centrale dei Fasci siciliani; la memoria dei confinati, dei perseguitati politici, dei deportati nonché la memoria della notevole, importante partecipazione dei siciliani, all’antifascismo e alla Resistenza.
    L’evento storico che oggi celebriamo, ci auguriamo possa segnare l’alba di un riscatto morale e civile di un popolo che scopre con orgoglio le proprie nobili radici. L’ANPI vuole esprimere la certezza e l’augurio che tutti insieme sapremo trarre da queste radici la linfa necessaria per riscrivere la nostra Storia, impegnati sempre in difesa della democrazia, della nostra Costituzione e della Libertà.


1
. Lettera pubblicata su Riscossa, 30 giugno 1895 Salvatore Francesco Romano, Storia dei Fasci siciliani, Laterza, 1959.

2
Domenico La Cavera, Vento di Sicilia, L’Ora, 27 dicembre 1959.

3. G. Casarubea, M. Cereghino, Tango Connection, 2007, p. 141.