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Salvatore Lupo Delitto Notarbartolo  puoi leggere tutto il libro qui

degli apparati di potere palermitani e anche della mafia, che per la prima volta, con Palizzolo e le sue intime relazioni in alto e in basso, intravede una grande posta e cerca di afferrarla. «Chi ha avuto interesse di fare scomparire un rapporto dal gabinetto di un ministro spendendo tante migliaia di lire, stavolta avrà speso il doppio per ammazzare Notarbartolo», afferma tranquillamente un capo-mafia parlando con Cervis all’indomani del delitto28 ed effettivamente chi raggiunge il tavolo del ministro può anche eliminare l’ingombrante rampollo di un’amica aristocrazia. Abbiamo dunque un movente che lega assieme i più diversi scenari: le campagne della Sicilia interna battute dai briganti, i giardini di Villabate, le spiagge di Tunisi, gli sportelli del Banco di Sicilia, l’ufficio di Anfossi e quelli ben più lussuosi della Navigazione generale, la borsa di Milano, le aule di Montecitorio. Tutto acquista una sua logica di fronte a questa Sicilia, a questa Italia nuova di fine secolo in cui
affarismo, mafia e politica provocano una reazione a catena attorno alla questione bancaria, nodo cruciale della modernizzazione del paese.

5. Rivolta morale.


Il 31 luglio 1902, la Corte d’assise di Bologna condannò a trent’anni di reclusione Palizzolo e Fontana, ma per un vizio di forma la Cassazione annullò la sentenza ordinando la ripetizione del processo, che ebbe luogo a Firenze.
Erano passati ormai molti anni dal delitto, e anche dall’esplodere dello scandalo a Milano; la partecipazione dell’opinione pubblica nei primi due dibattimenti era uno sbiadito ricordo. Le prove «cascavano ad una ad una per terra come le pietruzze di un mosaico scomposto, e mancava l’anima tragica che aveva dato loro vita a Bologna»
1. Un solo importante testimone nuovo, Filippello, venne convocato dalla parte civile insospettita dal fatto che costui non fosse stato citato dalla difesa a Bologna. In effetti il castaldo di Palizzolo rappresentava l’unico possibile punto debole nel fronte dell’omertà. Nel ‘96 era stato ferito in un
attentato, secondo la «voce pubblica» per un contrasto con i suoi soci sulla spartizione del compenso del delitto2. Qualche giorno prima del-
-
28 GDS, 30 novembre-I dicembre 1899.
1 Notarbartolo, Memorie cit., p. 394.
2 Rapporto San giorgi, allegato alla xiv relazione.


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la data prevista per la sua deposizione, in una pensione fiorentina, fu trovato impiccato: suicidio, sentenziò l’inchiesta. Seguì un’assoluzione generale per insufficienza di prove, e il caso Notarbartolo fu chiuso (23 luglio 1904).
Palizzolo ritornò su un piroscafo della Navigazione generale a Palermo, dove venne accolto come un trionfatore:


Il martirio della vittima, partito dalla prima calunnia dei codardi delatori, doveva pervenire, grado a grado, al triodo del Giusto. E trionfò Raffaele Palizzolo, dopo 56 mesi di straziante martirio: trionfò circonfuso della smagliante aureola del suo Dolore e della sua Virtù. E questo Dolore, questa Virtù, consacrati con sublime abnegazione, mercè gl’inauditi tormenti di cinque anni, in omaggio a questa oltraggiata Sicilia, furono le lacrimate corolle con cui nelle tristi ore della dura prigionia, Raffaele Palizzolo poté comporre le ghirlande del duro soffrire; quei Ricordi che fanno fremere di orrore, che fanno soffrire di infinita pietà3.

Il paradosso di questa dilagante retorica del martirio e della persecuzione colpì tra gli altri Mosca, il quale sentenziò che l’apoteosi «offendeva il senso morale»: «Certo che contro l’imputato degli assassini Miceli e Notarbartolo poco o nulla si poté provare, ma l’uomo apparve nella sua luce peggiore, se non delinquente almeno protettore di delinquenti e sospetto persino di relazioni coi briganti»4. Un movimento innocentista si era delineato ben prima della sentenza di Firenze, ad opera della clientela di Palizzolo, con il nome di «Pro-Sicilia»; si cercavano in effetti consensi in base alla più becera ideologia regionalistica, si additava nel deputato-mafioso l’ennesima vittima dei torti e delle oppressioni subite dall’isola. Il «Pro-Sicilia» guadagnò forze e consensi ben oltre l’area palermitana, ma nel corso di questa espansìone geografica il riferimento allo specifico del caso Palizzolo si fece più tenue mentre prevalevano temi modellati sugli argomenti nittiani di Nord e Sud, sulle polemiche liberiste a proposito del «mercato coloniale», sulle altre ragioni della protesta meridionale5; non diversamente da quanto avveniva per il «nasismo», altro e più grande movimento sicilianista che si batteva a favore di Nunzio Nasi, ministro trapanese accusato di corruzione. In questi primi anni del secolo, la classe

3 Calpurnio, Dai ricordi del comm. R. Palizzolo cit., p. 10; di questi fantomatici Ricordi non ho trovato altre tracce.
4 Mosca, Perché offende l’assoluzione di Palizzolo, in Id., Uomini e cose di Sicilia cit., p. 58.
5 Naturalmente si trattava di temi ricorrenti: notare ad esempio la coincidenza cronologica tra la presentazione dell’opera di Nitti e l’inaugurazione del processo di Milano in GDS. 8-9 novembre 1899.


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dirigente isolana faceva sempre più frequente ricorso al registro regionalista perché orfana della grande funzione nazionale svolta nella fase precedente con Crispi e Rudinì, preoccupata per i nuovi equilibri che anche economicamente rischiavano di penalizzarla.
Il punto di coagulo dello schieramento favorevole a Palizzolo era rappresentato da «L’Ora», il quotidiano di proprietà dei Florio6, a dimostrazione di un perdurante rapporto politico pur nelle varie peripezie processuali. Alla testa del comitato che ripresentava il deputato incarcerato alla Camera nel 1900 per il suo tradizionale collegio di Palazzo reale troviamo ancora la signora Florio. Marchesano, intenzionato a concorrere nella medesima circoscrizione, venne a quanto pare convinto a cambiare idea dalla promessa di un finanziamento elettorale da parte della casa armatoriale: singolare transazione tra i due schieramenti contrapposti che forse si può spiegare con la successiva cooptazione nello staff legale della Ngi (Navigazione generale italiana) del dirigente socialista, che avrebbe assunto addirittura il molo del grande mediatore nelle trattative con Giolitti e la Banca d’Italia7.
       Florio fu ascoltato a Bologna (per rogatoria) come teste a discarico.
Ecco il resoconto del giornale socialista palermitano «La Battaglia»:


Teste: La maffia? Non l’ho mai sentita nominare — Pubblico Ministero: Già, la maffia, un’associazione che delinque contro le persone e le proprietà, e di cui talvolta si servono anche nelle elezioni — Teste (scattando): E incredibile come si calunnia la Sicilia! La maffia nelle elezioni! Mai! Mai! — Pubblico Ministero:
Dunque lei esclude che le elezioni in Sicilia si facciano con la maffia e con i quattrini — Teste: Ecco, per essere esatti, devo dire che in una occasione recente, nel settembre dello scorso anno, i socialisti spesero centomila franchi per battere la lista monarchica, ma non ci riuscirono
8


La cronaca non risulta da altra fonte, e possiamo considerarla una esercitazione di satira peraltro giustificata dagli atteggiamenti politici assunti dal grande armatore che riesce a rimanere miracolosamente fuori dalla mischia; non viene ad esempio coinvolto nell’episodio dei due cocchieri, dalla pubblicistica portato a riprova del potere di «certi mafiosi in guanti gialli», ma attribuito ad un non meglio identificato «signore palermitano»9. E solo una delle prudenti omissioni messe in


6 Sul «Pro-Sicilia» rimando a F. Renda, Socialisti e cattolici in Sicilia, Caltanissetta 1972.
7 Cancila, Palermo cit4 pp. 237-40; Candela, I Florio cit.; G. Barone, Il tramonto dei Florio, in «Meridiana», 1991,11-12, pp. 15-46.
8 «La Battaglia», 10novembre 1901, cci. in Renda, Socialisti e cattolici cit., p. 405.
9 Cfr. ad esempio il citato discorso parlamentare di De Felice del 1’ dicembre, 1899, pp.
350-1 e Id., Maffia e delinquenza cit., p. 37.
 

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atto ogni volta che compare il nome non proprio sconosciuto di Ignazio Florio: nelle cronache dei processi, nell’arringa di Marchesano, nelle Memorie di Notarbartolo jr., non troviamo alcun richiamo alla Ngi quale parte del blocco di forze ostile all’assassinato o almeno quale referente politico di Palizzolo; mentre abbiamo visto come e quante volte ritorni nella vicenda il trust dell’armatoria, gloria municipale e grande industria delle città di Genova e Palermo.
     Florio manteneva relazioni in tutti i settori dello schieramento politico, socialisti compresi; anzi da lì a qualche anno il blocco popolare e Casa Florio sarebbero stati descritti come il vero trust della vita politica palermitana10. Però nella fattispecie l’operazione portata avanti era di stampo chiaramente conservatore, tendente alla ripresa delle forze moderate sonoramente battute da socialisti e radicali nelle amministrative del luglio 1900: nelle nuove elezioni del settembre, conseguenti allo scioglimento del consiglio comunale, quel risultato venne ribaltato con il successo di una lista di concentrazione monarchica capitanata dal principe di Camporeale, che si configurava come una ricucitura delle scissioni della classe dirigente provocate dal caso Notarbartolo-Palizzolo «per impedire il trionfo di coloro che vorrebbero fare del municipio di Palermo una tribuna di propaganda contro le istituzioni, contro il sacro patrimonio delle idee di famiglia, di patria e di libertà»11. Anche l’arco dei consensi del «Pro-Sicilia> si limitò alle forze moderate, escludendo quasi del tutto la sinistra che invece avrebbe rappresentato un’utile sponda interclassista nel successivo caso Nasi e nelle mobilitazioni sulle questioni zolfifera e agrumaria: la «persecuzione» subita da Palizzolo venne d’altronde attribuita al complotto ordito contro un deputato siciliano dai nordici e da quella «accozzaglia di spioni di polizia, ricattatori di strada maestra, libellisti di taverna e di lupanare che usurpano in Italia il nome di partito socialista»12. Non era sul tema della mafia che si poteva creare una facile comunicazione tra l’ala conservatrice e quella progressista dello schieramento politico.


10 Cfr. la lettera di VE. Orlando a Giolitti del i909 cit. da Barone, Il tramonto dei Florio cit., p. 34.
11 Programma elettorale cit. in Renda, Socialisti e cattolici cit., p. 116, cui rinvio per la ricostruzione di questi avvenimenti.
12 «L’Ora», 24-26 luglio 1904; così anche il resto della stampa palizzoliana; Il caso Palzzzoio, in «Il Gazzettino rosa», 11-18 gennaio 1900; Spartachus, Tasca, Drago e Palzzzolo, in «La Forbice», 7gennaio 1900.


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Si vede qui il tempo trascorso dal 1875. Su questi temi l’apologetica regionista, un tempo patrimonio della sinistra, viene ereditata dalle forze moderate; mentre la lotta alla mafia, già cavallo di battaglia della destra storica, entra a far parte integrante dell’armamentario polemico della sinistra. Certo, si tratta di forze politiche che si definiscono in maniera molto differente rispetto al passato: è l’estrema sinistra, radicale o socialista, a giocare dal punto di vista ideologico il ruolo decisivo nella gestione dell’affare Notarbartolo. Peraltro un lustro di discussione non è passato invano, e ormai il pubblico, la gente comune che si informa sui giornali, può pensare che dietro i tenebrosi misteri di Sicilia vada cercata una delle chiavi interpretative della storia d’Italia, scossa alle fondamenta dall’esplosione degli scandali politico-bancari.
Come strumento di rinnovamento la questione morale si rivela efficace: d’altronde, in situazioni e con protagonisti molto differenti, le svolte politiche nella storia post-unitaria palermitana sono sempre legate a mobilitazioni antimafia. L’offensiva di Malusardi aveva segnato l’avvento della sinistra al potere; con l’operazione Mori il fascismo tenterà di mutare i meccanismi della rappresentanza politica e della relazione Stato-società. In un analogo intreccio, anche il caso Notarbartolo dimostra che la mafia prospera in un’atmosfera di «normalità» e viene messa in discussione in un clima di mobilitazione; ciò che d’altronde è avvenuto ancora in anni a noi molto vicini. «È venuto il momento della ribellione morale», afferma De Felice
l3. La questione morale è l’unica che può all’inizio del secolo ridare fiato al socialismo urbano meridionale, al gruppo palermitano come a quello napoletano de «La Propaganda»14, quella battaglia contro le varie «maffie» e camorre che porterà alle inchieste sul «malgoverno urbano» nelle grandi città meridionali, puntello essenziale per l’operazione giolittiana di rinnovamento del personale politico locale. In Sicilia, in particolare, si va verso la stagione dei «blocchi popolari», il nuovo sistema
«aperto» di alleanze con cui l’estrema sinistra si candida a ricoprire un ruolo di primo piano nella lotta politico-amministrativa di primo Novecento. In questo modo gli «elementi democratici e socialisti


13 De Felice, Mafia e delinquenza cit., p. 43
14 Cfr. le considerazioni di M. Marmo, Il proletariato industriale a Napoli in età liberale,
Napoli 1978, pp.223 sgg. e di F. Barbagallo, Stato, Parlamento e lotte politico-sociali nel Mezzogiorno, Napoli 1976, pp. 70 sgg.
 

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dell’isola» provano a portare a termine l’opera di «bonificazione del terreno sociale» ad essi assegnata dai leader del Psi all’indomani della sentenza di Bologna15.
Veramente gli ex sovversivi convertiti al socialriformismo non mostreranno nel corso dell’esperienza popolarista un profilo morale molto superiore a quello degli avversari; così come i governi giolittiani non brilleranno per correttezza, almeno nel Mezzogiorno, pur mantenendosi (contrariamente a quanto si crede) al di sopra dei loro predecessori.
Radicali e socialisti settentrionali oscillano tra il riconoscimento della complessità del rapporto Stato-società e la demonizzazione della società del Mezzogiorno, preoccupati, soprattutto a partire dall’esperienza della reazione crispina, che la loro Italia civile e progressista rimanga esposta al contagio di un’Italia barbara corrotta e corruttrice, freno per lo sviluppo del paese nel suo complesso.


Laggiù, dove non erano industrie, né coltura diffusa, né iniziativa e vigoria di razza per fondar quelle e conquistare questa, è venuta su, dall’emulazione dei rapidi guadagni, dall’invidia delle ricchezze dell’Italia superiore, una razza di avventurieri e ciurmadori rifatti, i quali [...] s’appigliarono alla vita politica ad un tratto dischiusa alle loro vanità e cupidigie, invasero le amministrazioni, presero a trescare con le banche, ed ebbero per programma minimo e massimo di vendersi al miglior offerente. Questi tipi di baroni improvvisati, dei quali il de’ Zerbi fu il campione più geniale e raffinato, e Crispi il più scellerato ed energico (quindi il re della tribù, come nelle orde selvagge, per diritto divino), indosso ai quali, sotto il frack di parata del gentiluomo, spunta la cartuccera dell’antico brigante, vivono del lezzo e nel lezzo, sono i veri saprofiti politici della nazione6.


Solo in apparenza queste notazioni antropologiche sulla classe politica meridionale sono comuni ai socialisti del Nord e a quelli del Sud, a Turati e a Salvemini, ovvero, all’interno della medesima cultura radical-positivista, a Lombroso e a Colajaniii. Qui si scorge una questione cruciale: la malattia morale del Sud va riportata semplicemente ad un livello «inferiore» di civiltà o ad un intreccio nazionale del sistema di potere? E comunque, la corruzione delle classi dirigenti può implicare il giudizio negativo su un’intera società? «A me — scrive Arturo Labriola polemizzando con la «Critica sociale» — par defezione evidentissima da ogni criterio di materialismo storico il ritenere che delle regioni o delle nazioni prese in blocco possano essere tutte

15

16 Saprofi tipolitici, in "Critica sociale", XIII, 1895, pp. 194-5.
 

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 ritenute corrotte o perfette [come] i popoli eletti e i popoli condannati dal Signore»17.
Il caso Notarbartolo è la nuova occasione per lo svilupparsi di questa tematica. A fronte dell’equilibrata posizione di giornali moderati come «Il Corriere della sera», la stampa radicale dà spesso segni di intemperanza: così Alfredo Oriani, il repubblican-imperialista destinato ad essere assunto nell’empireo dei precursori del fascismo, in un articolo intitolato Le voci della fogna definisce la Sicilia «un paradiso abitato da demoni», «un cancro al piede dell’Italia, [...] una provincia nella quale né costume né legge possono essere civili»18. La risposta che arriva da un personaggio non sospetto come Colajanni punta ancora sulle responsabilità dello Stato più che su quelle della società: «I siciliani sono stanchi di essere inciviliti dai Govone, dai Serpi, dai Pinna, dai Medici, dai Bardesono. Nella fogna hanno diguazzato allegramente i Ballabio, i Venturini, i Codronclii, [...] i Mirri [...] nati e cresciuti al di là del Tronto»’
19.
La questione della mafia rappresenta solo una delle possibili occasioni di rissa regionalista. Per l’area napoletana pur priva delle tradizioni separatiste siciliane, si vedano ad esempio le scomposte reazioni di uno Scarfoglio di fronte al suicidio di Rosano, causate dalle accuse di affarismo e compromissione con la camorra formulate dall’estrema sinistra; siamo ancora nel quadro della polemica del moderatismo meridionale contro socialisti e nordici:
 

Nulla ci lega più a questo Stato, nutrito del nostro miglior sangue. Il vincolo della solidarietà nazionale è infranto in noi; noi siam quelli che debbono perire. E per affrettarci l’agonia, i nostri fratelli d’Italia ci hanno scatenato contro la masnada socialista, che si è gittata contro di noi con la bocca piena di fango e col cuore riboccante di odio micidiale.(...) È uno stato vero e proprio di guerra guerreggiata quello in cui viviamo; guerreggiata contro una masnada di pecore che non reagisce, che china la testa sotto il coltello fraterno, e si lascia placidamente scannare20


L’intreccio della polemica tra destra e sinistra con una rissa regionalista rende più difficile la valutazione dei complessi rapporti che in questi anni si instaurano tra politica, finanza, corruzione, criminalità


17 A. Labriola, Nord e Sud, in «Critica sociale», xv, 1896, p. 234.
18 In «Il Giorno», 8    gennaio1900.
19 Colajanni, Nel regno della mafia cit;, p. 39.
20 In «Il Mattino», 13 novembre 1903, cit. in Barbagallo, Stato, Parlamento cit., p. 169.
In precedenza Rosano aveva polemizzato con l’estrema per la sua intenzione di difendere
Palizzolo.

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comune e criminalità mafiosa. Il problema fondamentale è quello dei cascami del processo di modernizzazione e di democratizzazione del paese, che porta nell’area del potere, con meccanismi nuovi, nuovi soggetti sociali. Il rischio di un dibattito di questo genere è di demonizzare, agli occhi della gente, il processo in se stesso e non i suoi risvolti deteriori.
     Ciò riapre la strada a una posizione simile a quella della vecchia Destra storica, che progressivamente si farà strada di fronte all’impossibilità di sbloccare il sistema politico se non con i lenti aggiustamenti del giolittismo. Nelle Memorie di Leopoldo Notarbartolo, scritte negli anni della Grande guerra «rigeneratrice», le figure del padre dalla rigida morale kantiana, del figlio alla disperata ricerca di giustizia, si staglieranno isolate e necessariamente sconfitte in una fase storica tutta segnata dai perversi effetti del «parlamentarismo», che quindi si identifica non tanto nel mafioso Palizzolo, quanto nel disonesto Cosenza, nel malvagio Crispi, nel viscido Rudinì, nel vile Giolitti. Nessuna memoria, se non per pochi apprezzamenti meramente personali, delle forze che si sono battute contro la mafia: Marchesano e gli altri socialisti, Sangiorgi, l’opinione pubblica milanese, bolognese e (talora) anche palermitana, i giornali radicali e quelli moderati, tra cui il maggiore quotidiano dell’isola, «Il Giornale di Sicilia». L’Italia di fine secolo, scissa tra un campo conservatore e un campo progressista capace di porsi in maniera critica davanti agli arcani del potere grazie anche agli strumenti dell’informazione e del dibattito politico di massa per la prima volta liberamente adoperati, diverrà un’informe accozzaglia di corrotti e corruttori, un paese in cui «pioveva fango, e a palle di fango si giocava», in cui «ogni piazza diventava una gogna; esecutore, ogni giornalaio cretoso che brandiva come un’arma il sudicio foglio sfognato dalle officine del ricatto»
21
È l’interpretazione di chi, forse, si è già messo alla ricerca di un duce
cui affidare le proprie sorti.


(Segue  6. Culture: dentro e fuori l’organizzazione.)



21 L. Pirandello,! vecchi e i giovani. Milano 1913 (1 ed. 1905), p. 7.


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