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Letture consigliate che, per dirla con le parole del sociologo Giovanni Lo Monaco, possono contribuire: "a svelare l’infondatezza di uno stereotipo pernicioso e opprimente come quello che identifica la cultura siciliana con quella mafiosa; identificazione che in mano a mafiosi e collusi è divenuta, all’occorrenza, un conveniente mezzo di banalizzazione del fenomeno criminoso, ma per i siciliani si è trasformata nel tempo in una marcatura negativa, difficile (ma non impossibile) da cancellare."  

Salvatore Lupo Storia della mafia Donzelli 2007   

Cap. II La rivelazione 4. Sotto la lente di Franchetti  Pag. 90, 91 e 92

In verità tale articolazione di poteri risulta così chiaramente definita solo nella provincia di Palermo, dove infatti si concentrano i fenomeni più clamorosi; mentre Franchetti afferma che il «comportamento mafioso» attiene a questa come alle altre province «criminali», nonché a quelle «tranquille» della Sicilia orientale. Si tratta di un punto arduo del suo ragionamento. L’asserita consequenzialità tra il prerequisito culturale e lo strapotere dei malfattori viene infatti messa in discussione dal confronto tra le due sezioni dell’isola; (n.d.r. vedi nel merito Francesco Erbani) e resta da spiegare la ragione per cui nella Sicilia orientale la classe dominante avrebbe  saputo «conservare preziosamente il monopolio della forza ed impedire fino adesso che la dividessero con lei, servendola, dei facinonosi venuti su dalle classi infime della società>>, cioè i bravi originariamente al servizio del potere feudale e poi autonomizzatisi da esso. Non sembra infatti che qui i proprietari mostrino un’attitudine militare maggiore di quelli del Palermitano18 ; né il nostro autore è disposto ad ammettere che nel Siracusano o nel Catanese si sia realizzato un migliore raccordo tra Stato e società, ovvero un’egemonia sociale basata non solo sulla forza. La sua rinuncia a spiegare la diffusione zonale di mafia e brigantaggio con le differenze socio-economiche tra le varie aree, ad esempio con il diverso impatto del latifondo (ben presente invece a Sonnino) o con la tradizione delle città demaniali, appare paradossale per un intellettuale così attento alle modalità della disgregazione del sistema feudale. Ma il paradosso è, appunto, solo apparente. 

Franchetti lavora a una costruzione intellettuale che, come spesso accade, è grande perché unilaterale se non faziosa. In essa la mafia deve apparire l’elemento rivelatore, allarmante e ributtante, di un contesto sociale tutto inadatto ai principi liberali sui quali il mondo civile si basa. In questo egli si palesa sino in fondo epigono della vecchia destra la quale, pur predicando la teoria del «discentramento amministrativo» e dell’autogoverno dei proprietari, aveva preferito il centralismo perché convinta dell’immaturità delle classi dirigenti, specialmente meridionali19; immaturità ancor più evidente nel 1874-75, il momento in cui queste pretendono una piena partnership nel governo della nazione. L’Inchiesta rappresenta dunque la riproposizione ad altro livello dell’operazione fatta con le leggi di Ps. Solo che Franchetti non propone per la Sicilia «rimedi» eccezionali, ma, un po’ come Fortuzzi20, una diversa forma di governo, lucida e terribile come ogni utopia reazionaria. Sono «i Siciliani d’ogni classe e ceto [...] ugualmente incapaci d’intendere il concetto del Diritto». Essi vanno trattati come malati che si lamentano ma che «non si rendono conto del come e del perché» del loro male; infatti non possono «intendere il fine ultimo dei provvedimenti presi o da prendersi». Lo Stato non deve utilizzare nessuno dei canali di comunicazione che offre questa società infetta: a nessun livello il suo personale va reclutato tra i siciliani, e naturalmente, per «portare la Sicilia alla condizione di un popolo moderno>», il governo non deve «in niun caso» tenere conto dei desideri, delle proposte, soprattutto delle proteste dell’opinione pubblica e dei deputati isolani.21

Questi presunti «rimedi» rischiano di lasciare la discussione al livello del giugno ‘75. In Sicilia, la Risposta all’orrendo libello di Leopoldo hanchetti22 non può essere che ostile, e non solo per spirito conservatore o per adesione ai «valori» della cultura mafiosa, ma

anche perché l’evidente intenzionalità politica dell’autore appare la conclusione dell’ormai lunga vicenda di strumentalizzazione del fatto criminale messa in opera dalla Destra. Chi comincia a riflettere sul problema della mafia rischia di trovarsi travolto dalla super-irrorazione ideologica del tema, come accade al delegato di polizia Giuseppe Alongi che, esponendo le sue idee a un pretore, si sente rimproverare come seguace del «romanzo fantastico» di Franchetti, che invece è a lui perfettamente ignoto. Eppure in alcuni momenti l’analisi di Franchetti si avvicina a quella di Tajani, ad esempio nel riconoscere che i sistemi alla Albanese minano alla base la credibilità di istituzioni già così mal acclimatate. Però i due accentuano diversamente il discorso a seconda dell’intenzione politica. Il primo sostiene che si tratta di un cedimento dell’etica statuale alla nefasta influenza della collettività regionale donde la via d’uscita irrealisticamente giacobina di una rinuncia al rapporto con essa; per il secondo la mafia, nemico pericoloso ma che si può battere, diventa invincibile in quanto strumento di regime. Franchetti vede l’infezione originare dalla società., Tajani dalla politica.

   La situazione si evolve in maniera opposta a quella auspicata da Franchetti. Cade la destra, va al potere una sinistra proprietaria e meridionale che realizza una prima omologazione tra le sezioni regionali della classe dirigente al di là delle fratture post-risorgimentali. Il Mezzogiorno trova il suo Stato. In particolare per il ceto politico siciliano si inaugura un periodo di influenza che toccherà il suo punto più alto a partire dal 1887 con l’assunzione della presidenza de Consiglio da parte del leader della democrazia isolana dall’imprese garibaldina in poi, Francesco Crispi. Ma il punto di svolta, anche nella nostra vicenda, si realizza nel ‘76 con la prevedibile rinuncia del nuovo governo Depretis a far uso della legge di Ps. Nel corso del l’anno, però, l’ordine pubblico nella Sicilia occidentale subisce un nuovo deterioramento, addirittura con complicazioni internazionali dovute al rapimento del mercante inglese Rose ad opera di Antonino Leone, erede di don Peppino il lombardo nei Gotha banditesco. Il ministro dell’interno Nicotera, uno dei leader della sinistra meridionale, chiama allora un suo fido, Antonio Malusardi, alla prefettura :

Palermo (dicembre 1876).

Cap. III 6 Culture: dentro e fuori l’organizzazione  pag.163

<<Invece io credo che esista un’ideologia mafiosa che riflette i codici culturali ma soprattutto per deformarli, riappropriarsene, farne un complesso di regole tese a garantire la sopravvivenza dell’organizzazione, la sua coesione, la sua capacità di trovare consenso, di incutere terrore all’interno e all’esterno>>.


 Cap. III 6 Culture: dentro e fuori l’organizzazione  pag.163

 

            Rispetto ai processi contro gli stoppagghieri e gli Amoroso, il processo Palizzolo-Notarbartolo segna un enorme progresso per la concatenazione logica dei fatti, per la scomparsa delle più evidenti aporie nella costruzione dell’accusa in casi di mafia. Stupito che a Bologna non si sia andati ad una assoluzione per insufficienza di prove, il corrispondente del «Times» scrive che «i giurati sembrano aver basato il loro verdetto sulle impressioni generali [...] più che su questo o su quel fatto particolare»1. E le «impressioni generali» sono quelle suscitate dall’unico dato certo a Milano e a Bologna (ma ormai non così bruciante a Firenze): il ruolo delle istituzioni nella manovra tendente a coprire Palizzolo e più in generale nella genesi e nel perdurare del fenomeno mafioso; un ruolo denunciato dall’accusa e non più, strumentalmente, dalla difesa dei Marinuzzi e dei Gestivo. Il grande delitto getta un fascio di luce, come già aveva fatto la svolta politica del 1875-76. Colajanni col suo fortunato pamphlet Nel regno della mafia ricostruisce una vicenda nella quale, partendo dal Risorgimento, i governi della destra e della sinistra si pongono su una linea di desolante continuità con quelli più recenti. Anche questo viene dal dibattito. Si veda la reazione scandalizzata del pubblico a Bologna di fronte alla rivelazione delle trattative tra Palizzolo e Malusardi-Nicotera nel 1877: «Queste elezioni fatte tenendo sospesa sul capo dei candidati la spada di Damocle dell’ammonizione, gettano una ben trista luce sui candidati da una pane, ma dall’altra anche sull’opera del Governo»2. La responsabilità delle istituzioni è presente persino nelle opere dei due funzionari Cutrera e Alongi, stampate o ristampate in questo periodo, e ricche di altre notazioni di grande interesse. Sui quotidiani escono molti articoli tra i quali uno, del «Giornale di Sicilia», che merita di essere collocato tra la migliore saggistica sul tema: vi si denuncia il carattere fazionario del rapporto cosche-polizia, gli Albanese, i Bardesono, i Lucchesi che si sono serviti «di una pane della mafia per scoprire le marachelle dell’altra»; si conclude che nell’agro palermitano le «relazioni segrete» tra «guardiani, curatoli e simile gente» configurano «una vastissima organizzazione»3. E' il tema, come sappiamo, del Rapporto San giorgi

Però la confusione dei linguaggi rimane grande:

 

          In occasione del processo Palizzolo, In Assise come sulla stampa e persino

             in Parlamento, le definizioni di mafia pullularono moltiplicandosi in modo

 

1 Art. del 1° Agosto 1902 ib CS, 2-3 agosto 1902.

2 Cs, 2-4 ottobre 1901.

3 La mafia: sua natura e sue manifestazioni cit.

 

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                meraviglioso, andando dalla più completa negazione di ogni contenuto antigiuridico   all’affastellamento di tutto e di tutti, cosicché per gli uni la mafia e i mafiosi non esistono, per gli altri la Sicilia e i siciliani tutti non sono che un covo e un pugno di mafiosi4.

 

     In effetti, ogni acquisizione conoscitiva rimane affogata e come nascosta all’interno di un dibattito politico-giornalistico caotico e incontinente, da un lato incapace di delimitare l’argomento, dall’altro troppo avido di spiegazioni sulla natura della mafia.

E' il tipo di domanda che nelle tre tappe del processo viene posta dai giudici «continentali» a moltissimi testi, così come negli anni precedenti se l’erano sentita porre gli intervistati dalle commissioni parlamentari. E la questione da proporre a un demopsicologo, cioè a un etnologo, esperto per definizione delle peculiarità, delle «credenze» e dei «pregiudizi» del popolo siciliano. A Bologna Giuseppe Pitrè, chiamato a discolpa, ribadisce che la parola mafia stava anticamente ad indicare il concetto di «bellezza, graziosità, eccellenza nel suo genere», nei tempi moderni passa ad indicare «la coscienza, talora esagerata, della propria personalità, della propria superiorità, della propria dignità, la quale non si rassegna a sopraffazioni di sorta» e può «portare alla delinquenza»5. Pitrè tende a identificare un costume dei siciliani, originariamente positivo e in questo senso rivendicabile come a suo tempo aveva fatto il deputato Morana: «Se per mafia [si] intendesse la gente che non è disposta a subire i soprusi, le violenze, le offese [...] maffiosi sono tutti in Sicilia»6. Con Franchetti (mutatis mutandis) Oriani invece pensa che tutti gli isolani siano irrecuperabili alla civiltà, cioè mafiosi. La terza posizione, intermedia, è ancora quella rudiniana espressa da Mosca con la sua distinzione tra delinquenza e «spirito di mafia» stavolta simpatico anziché benigno, ma sempre generalmente diffuso nell’isola. Le tre teorie, e in particolare le due estreme, sono singolarmente coincidenti in quanto presuppongono che la mafia non sia altro rispetto alla cultura regionale e rappresenti un fenomeno non limitabile, di per sé non conoscibile, praticamente invincibile anche perché l’identificazione fa di tutti i siciliani, quanto meno per logica reazione, i difensori della mafia stessa: è lo schema dei movimenti tipo «Pro-Sicilia»

 

 

4 Alongi, La mafia cit., p. 112.

5 In «L’Ora» e in GDS, 31 marzo, 1° aprile 1902. Corsivi miei.

6 APCD, Sessione dcl 1874-75, Discussione cit. tornata del 7 giugno, p. 3966.

7 Mosca, Che cosa è la mafia cit. Al proposito R. Salvo, Mosca, la mafia e il caso Palizzoio, in «Nuovi quaderni del Meridione», 1982, pp. 233-45.

 

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Nella sua arringa di Bologna, Marchesano definisce Pitrè «ottimo folklorista, ma pessimo testimone. Interrogato sulla mafia, invece di dire quello che essa è, ha detto quale è l’origine della parola». In effetti questo rifarsi a una mafia originariamente benigna sempre presupposta, mai vista in atto, questa ricerca continua della definiziòne come ecceitas del fenomeno da studiarsi in pieghe profonde (e insondabili) della psicologia sociale, rappresenta un terreno terribilmente scivoloso. Una silloge delle innumerevoli citazioni delle poche pagine dedicate da Pitrè alla mafia proporrebbe una mappa attendibile degli ingenui e dei collusi dalla fine del secolo scorso a oggi, i quali tutti non si accorgono (o fingono di non accorgersi) del carattere palesemente apologetico e depistante di quelle considerazioni, i quali tutti credono (o fingono di credere) di essere davanti alla fonte oggettiva sulla cultura dei siciliani. Esistono peraltro elementi molto concreti per giudicare della posizione dell’etnologo: la sua stretta collaborazione in consiglio comunale e alla guida di enti e opere pie con Palizzolo, «vero gentiluomo, [.. .J correttissimo e onesto amministratore»; il suo rifiuto dell’invito governativo a candidarsi nel collegio palizzoliano di Palazzo reale; la partecipazione attiva, anche in veste di ideologo, al «Pro-Sicilia».9

Tra un significato antico e positivo e un significato nuovo — volgare e impreciso che potrebbe indicare qualcosa di negativo — Pitrè si riferisce a un quid imperscrutabile («è quasi impossibile il definirlLo]»)10, non differenziandosi dunque molto dagli imputati e dagli avvocati difensori nei processi di mafia, i quali tutti sostengono di non sapere cosa la parola voglia indicare. E la risposta data dal Carmelo Mendola membro della cosca Amoroso al magistrato che gli chiede se appartenga alla mafia: «Non so che significa»11. Lo scambio di battute apparirà rivelatore a Hess che lo porrà in epigrafe al suo libro, a Sciascia che più volte lo richiamerà 12: il mafioso non saprebbe

 

 

8 Marchesano, Processo eh., p. 29L

9 Cfr. rispettivamente la citata deposizione di Bologna; la testimonianza della figlia in G.

Bonomo, Pitrè, la Sicilia e i siciliani, Palermo 1898, p. 345; le opere citate di Barone e Renda.

Si veda anche Pitr’e, Per la Sicilia, in cm, 7-8 agosto 1902.

10 Pitrè, Usi e costumi, credenze e pregiudizi eh., p. 289.

11 ProcessoArnoroso, p. 39.

12 In L Sciascia, A futura memoria, Milano 1989. Peraltro Hess attribuisce per errore ia frase all’imputato Minì; Sciascia, aggiungendo un equivoco all’altro, afferma che «Mini [sic!J sta per Tizio; un Tizio medio o grosso mafioso’,: tipica proiezione verso un empireo simboJico di fatti e persone molto ben identificabili (Hess, Mafia cit., e ivi la prefazione di Sciascia, p. vi).

 

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effettivamente cosa la mafia sia, rappresentando la legalità per i siciliani un concetto astratto, portato di uno Stato del tutto estraneo, ed essendo quello che noi chiamiano mafioso l’unico possibile modello di comportamento in questa società. Del resto non si tratta del solo caso nel quale gli inquisiti del processo Amoroso appaiono come sostenitori un po’ estremisti delle teorie socio-antropologiche, ad esempio sul familismo dei meridionali.(1) Quando gli vien chiesto se i membri della cosca siano suoi amici, Caravello risponde: «Io sono amico soltanto di mia moglie e dei miei figlioli [...j fuori non conosco nessuno»; davanti a una domanda sui suoi odi «di partito» Emanuele Amoroso afferma: «Il mio partito sono mia moglie e i miei figli». Su questa linea gli imputati finiscono con l’esagerare contrapponendo la famiglia «vera» (il nucleo dei conviventi) a quella di sangue, come quando uno degli Amoroso ostenta una totale mancanza di rapporti coi fratelli perché non si creda che egli possa meditare la vendetta contro i Badalamenti assassini di un altro suo fratello13

Hess ha interpretato una fonte tremendamente intenzionale qual è quella giudiziaria come se essa potesse rispecchiare la cultura «dei siciliani», non venendogli in mente che i siciliani possano dire, o non dire, a seconda delle convenienze: convenienze politico-ideologiche (o di altro genere?) per Pitrè, disperato tentativo di salvarsi per i protagonisti di un processo destinato a concludersi con tante condanne a morte. Quando Giuseppe Amoroso, zio degli imputati, rivela circostanze che accusano costoro dell’assassinio di suo figlio (loro cugino), l’imputato Emanuele Amoroso lo sfida a giurare sull’anima del padre il quale rappresenta l’ascendente comune della vittima e dei sospetti assassini. Il presidente, perplesso, osserva: «Qui non vi è che un solo giuramento, quello previsto dalla legge», ma l’avvocato Marinuzzi insiste: «quello non va per il caso [...] perché il volgo non vi crede», finché si fa giurare il teste come richiesto dalla difesa14. Per Hess questa sarebbe la riprova della distanza socio-culturale che separa lo Stato dai siciliani, della «lacuna tra socialità e morale statale» che genera il comportamento mafioso15. A me invece pare si tratti di un’abile messa in scena di Marinuzzi, tendente a costruire davanti agli occhi dei giurati (e forse dello stesso teste) l’immagine dei suoi difesi come personaggi ingiustamente

 

 

13Processo Amoroso, rispettivamente pp. 34, 69, 30.

14Processo Amoroso, p. 120.

15 Hess, Mafia cit., p. 44.

 

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accusati, che credono nei medesimi valori familistici della gente comune e che quindi non possono essere i feroci assassini a sangue freddo di un loro stretto congiunto. Ma è chiaro che tale strumentalizzazione della cultura tradizionale può confondere le idee ad un sociologo tedesco solo attraverso una complessa mediazione colta, nella quale proprio Pitrè ha un ruolo centrale e che la cultura avvocatizia isolana contribuisce a diffondere.

Questa cultura si propone principalmente di occultare sotto il dato folklorico quello assòciativo, una «chimera, un sogno dell’alterata fantasia di un delegato», il «quid misterioso», la «coda posticcia» denunciata dai difensori degli stoppagghieri e degli Amoroso16. La lotta tra le cosche viene ridotta a inimicizia di famiglie, in un mondo artatamente dipinto come primitivo nel quale agiati trafficanti come gli Amoroso sono fatti passare per «volgo», un Fontana che commercia in agrumi da un continente all’altro per analfabeta17. Svanito l’effetto del grande scandalo, la percezione della mafia si assesterà su questo piano folklorico e tradizionale perdendosi tra l’altro il collegamento con il grande tema degli scandali bancari che per un attimo aveva dato al fenomeno una dimensione ben altrimenti «moderna» e pericolosa.

        Intuendo il vantaggio che la discussione sull’essenza della mafia dà alla difesa, Marchesano apre la sua arringa dichiarando di voler parlare solo di specifici comportamenti criminali; proposito che però non mantiene sino in fondo:

 

       Cos’è oggi la mafia? Una organizzazione, come taluni credono, con capi e sotto capi?   No. Ciò non esiste se non nei sogni di qualche questore. Dunque, non è questo la mafia, ma un sentimento naturale, uno spontaneo concerto, una solidarietà che riunisce tutti i ribelli alle leggi della società civile E...]. Le cosche hanno tra loro un vincolo ideale, l’interesse comune, ed in comune i protettori18

 

Qui i dati portati dalla questura, che pure per la parte civile è stata preziosissima alleata, sono quasi ridicolizzati; l’interrelazione tra le cosche viene ridotta alla sola comunanza di protettori; si ricorre a concetti di non grande valore euristico quali il «sentimento naturale». Ricalcando la vecchia e superficiale definizione di Bonfadini, Marchesano svaluta il poderoso lavoro di documentazione sulle connessioni

 

 

16Arringa Lucifora, in ASPA, GQ, b. 7, arringa Cuccia, in Processo Amoroso, p. 250.

17 Tesi smontata da Marchesano, Processo cit., pp. 69-70.

18 Marchesano, Processo cit., pp. 294-5.

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tra fatti e persone compiuto da lui stesso e da Sangiorgi, dal quale ben altro si desume che lo «spontaneo concerto». Ancora una volta la stiategia processuale porta a semplificare senza ottenere alla fine il risultato. Pitrè e Palizzolo perdono la battaglia, ma si preparano a vincere la guerra: la mafia non sarebbe «setta né associazione», non avrebbe «regolamenti né statuti» , essa si identificherebbe in un comportamento e in una cultura. Invece io credo che esista un’ideologia mafiosa che riflette i codici culturali ma soprattutto per deformarli, riappropriarsene, farne un complesso di regole tese a garantire la sopravvivenza dell’organizzazione, la sua coesione, la sua capacità di trovare consenso, di incutere terrore all’interno e all’esterno.

I canti carcerari esprimono disprezzo per «l’omu chi parra assai», il quale «cu la sò stissa vucca si disterra»20. Rosario La Mantia viene rinnegato persino dalla sua famiglia. La qualifica di spia, ‘nfami, cascittuni, rappresenta un pesante fardello per chi ne viene colpito e insieme una giustificazione per chi uccide, dunque si presta a essere utilizzata come un’arma nella lotta di fazione: assassinando Damiano Sedita, gli Amoroso esclamano: «ha finito di avere il porto d’armi franco dalla polizia»; Cusumano viene definito «infame spia». L’organizzazione decreta il boicottaggio dei borgatari contro la Di Sano, bettoliera e presunta informatrice, prima di attentare alla sua vita. Accusando Filippo Siino di essere «gettato con la quistura» Giuseppe Biondo fa solo «quello che doveva fare per comandare lui»21, cioè squalificare l’avversario di fronte a un’opinione pubblica formata da cagnolazzi e fiancheggiatori. L’omertà, intesa come ripulsa «morale» nei confronti del ricorso al sistema legale, rappresenta forse un valore generale, un modello ideale di comportamento delle popolazioni siciliane e in particolare del vasto universo criminale; certo non è una guida per l’azione dei mafiosi, i quali come abbiamo più volte visto collaborano quando e come ad essi conviene. Non si dimentichi che l’organizzazione deve mediare tra Stato e criminali, e dunque essere credibile verso l’uno e verso gli altri. L’autorità spesso sa chi sono gli autori dei reati perché i mafiosi parlano senza alcun pregiudizio ideologico, anche se non si espongono testimoniando in tribunale: è da qui, non da una generica società, che proviene la supercitata «voce

 

19 Pitrè, Usi e costumi, usanze e pregiudizi cit., II, p. 292.

20 "L’uomo che parla molto si rovina con la sua stessa bocca".

 21 È l’opinione del cit. anonimo, p. I.

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pubblica.. C’è poi il caso del mafioso perdente che si rivolge alla polizia per aiuto e protezione, ottenendo magari un passaporto per l’America come accade al castaldo Santo Vassallo condannato a morte per tradimento dai suoi compagni di cosca; però nella fattispecie il poveraccio viene inseguito fino a New Orleans e assassinato22. I Vassallo, o peggio, i La Mantia e i D’Amico, minacciano di lasciare la cosca in balia delle tendenze collaborazioniste dei suoi membri e dei suoi nemici. Alla «propalazione» che mette in pericolo l’esistenza stessa dell’organizzazione si risponde col terrore, sicché ognuno calcoli la probabilità di rappresaglie anche a grandi distanze di spazio e di tempo. Come sostiene Sangiorgi, «tutti, dai più agiati proprietari ai più povri contadini, dalle notabilità alle più oscure individualità, tacciono perché temono»23, ma il fatto già sottolineato che non tutti costoro temano la stessa sanzione, la morte, dà al precetto rivolto verso il mondo dei facinorosi diversa efficacia.

      Però se i mafiosi non vogliono ridursi al ruolo di confidenti, se intendono mantenere o accentuare la loro autonomia nei confronti dell’autorità, devono riuscire a tutelare la compattezza dell’associazione con metodi non esclusivamente terroristici garantendo fedeltà come quella che induce Filippello, pur abbandonato e minacciato dai suoi complici, a suicidarsi piuttosto che testimoniare contro Palizzolo.

      Evidentemente i legami di sangue non bastano a garantire tutte le alleanze, per quanto essi (in questa come in qualsiasi altra società) ne rappresentino il nucleo più solido: Mazzara può opporsi a Giammona facendosi forte «dell’attiva solidarietà dei membri della sua famiglia»24; il partito Siino ha una spiccata fisionomia parentale. In un quadro di famiglia nucleare come quello isolano, è il contesto a decidere se vada utilizzato il potenziale di compattezza insito nell’istituto familiare: gli Schneider hanno ad esempio mostrato con fine analisi come il rapporto tra fratelli, molto tenue nelle famiglie bracciantili del paese agrigentino di Sambuca, venga invece esaltato nelle imprese pastorali da cui deriva il ceto medio dei gabellotti, perché quel tipo di attività implica particolarmente un rapporto fiduciario tra i suoi membri 25. Tale esigenza è ovviamente massima in un aggregato criminale anche se poi non sempre l’arco parentale sarà sufficiente per alimentare

 

22Rapporto Sangiorgi, pp. 277 sgg., 349 sgg.

23 Ibid, p. 191; ma anche Alongi, La guardiania cit., p. 354.

24 Il questoreal prefetto, 18 settembre 1875 cit., p. 5.

25 Schneider, Classi sociali cit., pp. 103 sgg.

 

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 le cosche: il comparaggio, parentela artificialmente ricreata, rappresenta il ponte verso relazioni più complesse, dove come sappiamo agiscono anche collanti diversi, ricalcati sui modelli carbonari o massonici del periodo risorgimentale.
In molti casi, ad esempio in quello della «Fratellanza» di Favara, l’iniziando promette di abbandonare i reati più volgari come il furto, predisponendosi ad assumere il ruolo dell’uomo d’ordine, quello del notabile o quanto meno del mediatore in affari. Così la mafia ama presentarsi, anche se la realtà è più prosaica e come già nota Alongi nei fatti le cose sono più complicate: chi garantisce l’ordine agisce in genere in stretta correlazione con chi lo viola, schema che tende ad allargarsi dal suo ambito originario della custodia rurale ad un gran numero di manifestazioni criminali. I santoni che promettono ai cocchieri palermitani la restituizione delle carrozze rubate dietro somme che «danno ad intendere siano state richieste dai picciotti", sono già d’accordo con loro per la spartizione della taglia26. La mafia d’ordine rappresenta più che altro un modello ideale, da prospettare alle classi dirigenti, affascinante anche per la criminalità «comune». Il capo della banda di scassinatori e borsaioli dell’Albergheria scoperta nel 1904, interrogato dalla polizia, cerca di tenersi ben al di sopra dei piccoli delinquenti: «Da abile e provetto mafioso si atteggiò a gentiluomo offeso [...]. Disse infatti che egli avrebbe potuto trovarsi in omicidii e ferimenti, ed è pregiudicato per questo ultimo titolo, ma mostrò un olimpico disprezzo per i ladri»27.
      Dunque i codici della mafia sono legati alla necessità di mantenere la compattezza interna, al pubblico riconoscimento della capacità di incutere il terrore nei concorrenti potenziali e nelle spie. Il più efficiente dei guardiani sarà quello che con la sua sola fama, non tanto con la sua presenza fisica, scoraggerà i ladri secondo il detto «paura guarda vigna». Le carte d’archivio, come le pagine di Alongi e Cutrera, ci portano in un mondo dove un furto di limoni può rappresentare un’offesa da lavare col sangue, dove il danneggiamento anche minimo rappresenta lo «sgarro», la diminuzione di autorità, la provocazione rituale cui si deve rispondere in maniera sempre proporzionata. Come in ogni tipo di faida, «la gravità del crimine non


16 Il rocesso contro i rapinatori di carrozze, in GDS, 7 luglio 1928. Per un caso di questo
genere cfr. la relazione della prefettura, Il ottobre 1916, in ACS, PG 1916-18, b. 236.
27 Relazione cit. di Alongi del 13 maggio 1934, p. 12.


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sta tanto nelle caratteristiche intrinseche quanto nella sfida al prestigio della vittima" 28. E' la simbologia di tanti episodi a noi già noti, bene espressa in quel racconto in cui il figlio del proprietario che è stato costretto a vendere l’agrumeto al mafioso gioca puntigliosamente a rubare ogni sera dei limoni da quel giardino finché il rito ha il suo esito sanguinoso29. Ma, senza essere etnologo né letterato, già Sangiorgi utilizza il duplice concetto del danno economico e dell’offesa arrecata alla cosca per spiegare come il rifiuto di una fornitura d’acqua ai cugini Vitale (quelli del delitto Miceli) abbia condotto alla morte il fontaniere La Mantia; e invita a non stupirsi che «per questo motivo, in apparenza ed in altro ambiente non abbastanza grave, i Vitale e consoci abbiano determinato, come fecero, di uccidere» 30. L’incapacità di rispondere all’offesa è elemento disonorevole, che gli avversari sottolineeranno ritualmente. Il curatolo Ajello allontanato dal fondo condotto per tanti anni viene ogni notte perseguitato da una «serenata» dal titolo «Senti l’acqua e di siti mori», che vuole dire: sei vicino alla fonte della legittimazione, del potere e della ricchezza, ma non ne puoi attingere; cosa che lo porta all’esasperazione e all’errore decisivo che implica morte. Il suo cadavere sarà portato sotto le finestre dell’Ucciardone e mostrato ai figli carcerati per un ultimo sfregio31
    Per il resto, l’onore che i mafiosi si attribuiscono diverge in punti significativi da quello generalmente inteso come tale, nella società meridionale e altrove. Non sarebbe necessario ricordare quanti delitti si siano mascherati dietro presunte quanto inesistenti questioni di onore sessuale se dietro uno di questi non fosse «l’Alta maffia dei Ciaculli» nelle persone di Salvatore e Giuseppe Greco; che nel dicembre 1916 decretano l’assassinio del sacerdote Giorgio Gennaro reo di aver denunciato durante la predica domenicale l’ingerenza mafiosa nell’amministrazione delle rendite ecclesiastiche; naturalmente, si dice in giro che si tratta della vendetta di un marito tradito32. Il gabellotto Gaetano Cinà viene invece eliminato da un complotto ordito

 


28 J.Amery, Sons of the Eagle: a Study oz Guerrilla War, London 1948, cit. dagli Scbneider, Classi sociali cit., p. 121.
29 G. E. Nuccio, Il giardino dei limoni Palermo 1926, cit. da S. F. Romano, La Sicilia nell’ultimo ventennio del secolo XIX, Palermo 1958, p. 118.
30 Rapporto Sangzorgi,XXVIII relazione, p. 9, corsivo mio.

31 IL questore al prefetto, 10 ottobre 1875 cit.
32 Relazione del prefetto di Palermo, 16 marzo 1916 in ACS, PG 1916-18, b. 236.


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dal fratello Luigi, innamorato della cognata, e dal capo-mafioso Giuseppe Biondo, deciso a punire chi gli ha sottratto il controllo di un giardino33: fratelli che assassinano fratelli alleandosi con «estranei», passioni e interessi ferocemente perseguiti in barba a ogni familismo. Non mancano gli assassinii di donne, come nel caso della serva sedotta da uno degli Amoroso o in quello della ragazza Di Sano. C’è il killer di Monreale che, non essendo riuscito a trovare i nemici del suo capo-cosca, uccide un loro figlio bambino per non dover tornare a casa a mani vuote34. D’altronde, in situazione estrema, i mafiosi stessi finiscono per rimarcare la differenza tra l’onore «vero» e quello di cui si ammantano le cosche. Antonio Badalamenti, mentre corre a cercare una levatrice per la moglie che sta partorendo, cade sotto i colpi dei sicari degli Amoroso imprecando contro i suoi nemici che «uccidono a tradimento»; ai «leali gentiluomini di Piazza Montalto» si riferisce sarcasticamente lo Scalici in un romanzo d’appendice ispirato a quei tragici fatti35.
   Il modello della leale competizione ben presente nella cultura popolare, ancora riscontrabile nei duelli al pugnale dei camorristi o dei ricottari, in quelli degli spataiali palermitani, catanesi o messinesi, è assolutamente lontano dagli agguati dei sicari armati di fucile e appostati dietro i muri di cinta dei giardini che perpetrano i delitti mafiosi senza dare alla vittima alcuna possibilità di difesa; il termine usticano, col quale i ricottari qualificano chi aggredisce proditoriamente36, potrebbe riferirsi a comportamenti e aggregazioni nati al confino di Ustica o di isole consimili. L’idea di Arlacchi secondo la quale le gerarchie tra i mafiosi vengono determinate da una «libera competizione per l’onore» giocata attraverso «sfide e combattimenti» riflette forse una divergenza tra la ‘ndrangheta e la mafia «tradizionali» ma soprattutto si basa su una documentazione letteraria molto, troppo distante dalla realtà. Nella mafia vera l’eliminazione degli avversari si accompagna in genere a «ragionamenti», a false attestazioni, a presunti accordi che servono


33 ASPA, GP, b. 148, f. 16, Il conandante della legione dei carabinieri al prefetto, 3 gennaio 1896, ma anche Rapporto Sangiorgi, p. 34 Lo Schiavo, 100 anni di mafia c,t
35 Processo Amoroso, p. 47; E. Scalici, Cavalleria di Porta Montalto, Napoli 1885, p. 81
della ristampa con il titolo La Mafia siciliana, a cura di A. D’Asdia, Palermo 1980.
36 Onufrio, La mafia cit., p. 367.
37 Arlacchi, La mafia imprenditrice cit., pp. 26-7. Molto più convincente l’analisi di Catanzaro, Il delitto cit., pp. 38-41.


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solo a far abbassare la guardia ai condannati; così l’assassinio di Filippo Siino, preceduto da una solenne riconciliazione in chiesa dei due partiti, viene reso possibile dal tradimento di un amico della vittima predestinata che la conduce al luogo dell’imboscata, dallo «spergiuro» e dal «tradimento». La provocazione onorifica al duello può essere utilizzata solo in chiave strumentale. Antonino D’Alba che la cosca di Falde ha deciso di eliminare è uomo avvertito il quale si guarda bene dal farsi sorprendere fuori di casa. Solo allorché un avversario lo provoca proponendogli uno scontro vis à vis egli esce armato di revolver, ma sul luogo dell’appuntamento trova una dozzina di persone che lo crivellano di colpi. Al rito della competizione individuale basata sul coraggio e l’abilità si oppone quello dell’esecuzione collettiva, sottolineatura del fatto che è l’organizzazione ad aver decretato la pena estrema, che di questo gesto i suoi membri si assumono solidalmente la responsabilità come fa il plotone d’esecuzione dello Stato su cui la mafia tende a modellarsi.
L’imputato Mendola e gli altri sanno benissimo cos’è la mafia, solo che a loro non conviene dirlo.

 


38 Termini usati da Francesco Siino, Rapporto Sangiorgi, p. 45.

39 Ibid., p. 95.

 


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Per avere un quadro più completo è utile leggere il capitolo precedente di Salvatore Lupo, sempre in Storia della mafia 2007, in cui l'autore fa una approfondita analisi del delitto Notarbartolo:

5. Rivolta morale

 

Storia della mafia di S. Lupo in books.google:

http://books.google.com/books?id=LU88NcBnr0kC&pg=PA159&lpg=PA159&dq=ve orlando mafia&source=web&ots=8sDax8CP1Y&sig=6EJRO1Ub-1D0jWJWWZsO1qp_ZY8#PPA166,M1

 

url corto  http://urlin.it/155e7

 

                                                      ****

Cosa Nostra sempre più "nostra"

Intervista a Leoluca Orlando di Francesco Silvestri

 

 Leoluca Orlando: <<Vorrei leggerle questa affermazione dello storico Salvatore Lupo: "Non è vero che l’opinione pubblica sostiene la mafia, nemmeno adesso che in Sicilia si è espressa con un voto così clamoroso, l’opinione pubblica non ritiene piuttosto che la discriminante mafia-antimafia sia così importante da farla schierare su questo problema".

Io sono assolutamente d’accordo con Salvatore Lupo e considero questa la nuova vera insidia della mafia. Il problema è appunto che la mafia è presente con procedure, meccanismi e tecniche che non sono più terroristici, ma finanziari e culturali. Perciò l’affermazione di Lupo fotografa una realtà indubitabile nel comune sentire della gente: il tema della lotta alla mafia non è più prioritario perché la mia vicina di casa non legge più le notizie di morti ammazzati e quindi si preoccupa piuttosto della disoccupazione, della mancanza d’acqua, del traffico.>>

In

http://www.achabrivista.it/pdf/7.pdf  Salvatore Lupo

La spiegazione del fenomeno fondata sull'arcaismo socioeconomico,

ovvero l'equazione mafia = latifondo, come peraltro

sul suo corrispettivo socio-culturale, ovvero comportamento

mafioso = antropologia dei siciliani/meridionali (secondo i

classici e diffusi stereotipi), non informa né sulla diffusione del

fenomeno mafioso nel passato, né sulla sua pervasività in tempi

più recenti, peraltro proprio in coincidenza con la

modernizzazione del Paese.

Una questione politica. Forse, suggerisce ancora Lupo,

bisognerebbe provare a distinguere il fenomeno dal suo contesto,

indagando il modo con cui l'organizzazione mafiosa si appropria

dei codici culturali, li strumentalizza, li modifica, ne fa un

collante per la propria tenuta. Si pensi ad esempio al rifiuto del

concetto dell'impersonalità della legge, al disprezzo per gli

"sbirri" e per chi con essi collabora, tratti certamente molto diffusi

tra gli appartenenti ad ogni ceto nella Sicilia otto-novecentesca, ma

che dalla mafia vengono riutilizzati secondo proprie finalità.

Anche in tempi moderni e pur in contesti diversi, la mafia ha

sempre fornito di sé una sola immagine: non delinquenza, ma

rispetto della legge dell'onore, difesa di ogni diritto, protezione

dei deboli, grandezza d'animo. Dunque è innanzitutto la mafia a

descrivere sé stessa come costume e come comportamento, come

espressione della società tradizionale, fornendo un mito,

costruito, in contrapposizione (ma opportunisticamente

dialogante) ad un ordine statuale invadente ed alieno. Ogni

mafioso ci tiene a presentarsi nella veste del mediatore e del

pacificatore di controversie, ostentando una "giustizia" rapida ed

esemplare.

vedi anche: http://www.cliomediaofficina.it/7lezionionline/lupo/lupo.html

http://www.cliomediaofficina.it/7lezionionline/lupo/par8.html   

 

 
E poi, si domanda Alcaro, perché la mafia (o la camorra o la ' ndrangheta), che dura da qualche secolo, dovrebbe dipendere da codici (ndr. culturali) che invece risalgono a tradizioni millenarie? E perché, ancora, alcune regioni meridionali e non altre, dove pure vigono quegli stessi codici, sono infestate dalla criminalità organizzata? E infine: non è vero che in altre regioni italiane - nelle Marche, in Veneto, in Emilia Romagna - il nucleo familiare è alla base di quella civilizzazione industriale fondata sulle piccole imprese che tanti apprezzamenti riscuote da noi e all' estero? E allora perché la famiglia è risorsa al Centro-Nord e ingombro al Sud?

Mezzogiorno di gloria torna il Sud riabilitato di FRANCESCO ERBANI

Tante volte si legge che molti guai da cui è afflitto il Mezzogiorno d' Italia - la mafia, il clientelismo, il disordine urbano, il mancato o il contorto sviluppo economico - sono solo la conseguenza naturale di come i meridionali sono fatti. Altro non sarebbero, quegli accidenti, che il frutto dei comportamenti e delle culture che le popolazioni del Sud hanno espresso, delle tradizioni accumulate per secoli e in modo irrimediabile sedimentate nella loro antropologia. E' un sentimento nebulosamente diffuso, talvolta accompagnato persino da benevolenza, oltre che un' opinione espressa con varietà di argomenti, in una scala che giunge fino al razzismo più spudorato. In questo magma che soffusamente brontola lancia un sasso Mario Alcaro, professore di filosofia dell' Università della Calabria, allievo di Galvano Della Volpe. Alcaro ha scritto Sull' identità meridionale (Bollati Boringhieri, prefazione di Piero Bevilacqua, pagg. 114, lire 30.000: oggi in libreria), in cui si riabilitano valori, modi e stili di vita che appartengono al Sud d' Italia (ma in genere all' area mediterranea): la pratica del dono e dell' ospitalità, ad esempio, la forza dei vincoli familiari, amicali o comunitari, alcune figure che giganteggiano nel paesaggio meridionale - come il compare -, il prevalere di un archetipo materno, fino al complicato culto dei morti e ai simboli che lo scandiscono. Altro che eredità di cui sbarazzarsi, identità da rinnegare, sostiene Alcaro: è un patrimonio che va purtroppo disperdendosi e del quale andare fieri. Da una decina d' anni il Mezzogiorno viene letto non solo attraverso la lente dell' arretratezza e del divario rispetto al resto d' Italia. Alcuni studiosi - in particolare quelli riuniti intorno alla rivista Meridiana, diretta da Piero Bevilacqua - scrutano la storia delle regioni meridionali "senza il meridionalismo" (per usare l' espressione di Giuseppe Giarrizzo), badando non solo alla "questione" meridionale, ma molto ai "fatti" meridionali. Recentemente sono usciti due libri, diversi fra loro, che vanno in questa direzione: la Storia della Calabria di Augusto Placanica (Donzelli) e Questioni meridionali di Carlo Donolo (L' ancora). Il Mezzogiorno non ha più l' aspetto di un "mondo a parte". E' oscurato da tantissime ombre, ma né la sua storia né il suo presente si limitano ad esse. Preceduto da Franco Cassano, che alcuni anni fa scrisse Il pensiero meridiano, Alcaro prova a verificare sulla storia della mentalità se e quanto sia fondata l' idea di un Mezzogiorno che serba un ricco giacimento di valori assecondando i quali non si recede affatto nella barbarie criminale o nel caos civile e anzi si arriva foderati di umanità e di una certa pienezza di vita all' impatto con una società tecnologica e impersonale. E' come se il Sud si trasfigurasse e diventasse, da zavorra che appesantisce l' ingresso dell' Italia nel novero del moderno, la coscienza critica di questo passaggio, il testimone attivo di quanto sia possibile progredire senza spianare il passato - come farebbe un volgare speculatore armato di ruspa di fronte ai resti di un tempio greco che gli impediscono di costruire un villaggio turistico. Nelle regioni del Sud era molto diffusa la consuetudine del dono, che ancora sopravvive in molte comunità. Il dono, spiega Alcaro, è un' offerta di beni da cui nascono obblighi che rafforzano il legame sociale e rivitalizzano l' ossatura comunitaria. Mette in relazione individui e non, come accade nello scambio mercantile, soggetti anonimi, che restano estranei fra loro e che allacciano relazioni solo per fini di utilità. "Quando ero ragazzo in Calabria", scrive Corrado Alvaro in Itinerario italiano, "vedevo che tutta la vita sociale girava intorno a questi doni stagionali: l' invio delle primizie, dei frutti e degli animali, che si spedivano non soltanto tra vicini, ma da paese a paese". Il laboratorio in cui Alcaro sperimenta questa socialità primaria è la Calabria, una delle regioni meridionali più disastrate. Una specie di Sud del Sud. Ma, connesso al dono, è il sentimento dell' ospitalità, che ha spinto proprio i calabresi ad accogliere nel corso dei secoli varie comunità di profughi - gli albanesi, ad esempio, inseguiti dai turchi, o gruppi di ebrei, fino ai curdi sbarcati qualche mese fa a Badolato e Soverato, dove hanno incontrato una straordinaria benevolenza. Il dono e l' ospitalità rimandano ad un altro pilastro dell' ethos meridionale, la famiglia, cellula di base di organismi più complessi, sia sociali che economici. Qualche decennio fa un sociologo americano, Edward Banfield, condusse un' inchiesta a Chiaromonte, paesino della Lucania, e credette di individuare nella protezione che la famiglia assicurava ai suoi membri, in un presunto sentimento di esclusione verso l' esterno, verso il "pubblico", una delle cause dell' arretratezza meridionale e del mancato sviluppo di una società civile. Banfield lo definì "familismo amorale". Il familismo, è stato detto, si dilata nella clientela, in quella rete di relazioni personali che si sostituisce alle procedure e alle regole di una società moderna. E siamo al punto: i meridionali hanno scarse virtù civiche perché ragionano in termini di favori reciproci e si nutrono di rapporti fra parenti, amici e compari. (Un altro studioso americano, Robert Putnam, ha indicato l' origine del carente civismo nel fatto che mai attecchì al Sud l' esperimento medioevale dei Comuni. Finendo subissato di critiche). Alcaro ribalta il ragionamento. Non è la famiglia a produrre la clientela, che è invece il modo in cui patologicamente molti settori della società meridionale, all' alba dell' Unità, si adattano alla fisionomia che assume lo Stato, al duraturo carattere oligarchico delle sue élites, alla parzialità di molte delle sue amministrazioni, dal fisco alla giustizia. Il clientelismo e la logica di clan si perpetuano - continua Alcaro citando Bevilacqua - perché lo Stato inaugura politiche straordinarie verso il Sud che garantiscono ai ceti dirigenti locali di invocare e intercettare fondi a solo vantaggio delle proprie zone di influenza. Eccolo qui, il clientelismo. La famiglia meridionale non c' entra nulla neanche con la mafia (come altri "stereotipi" siciliani: ne ha scritto con ottimi argomenti Salvatore Lupo), che abilmente usa, deformandoli, alcuni codici culturali della Sicilia. E poi, si domanda Alcaro, perché la mafia (o la camorra o la ' ndrangheta), che dura da qualche secolo, dovrebbe dipendere da codici che invece risalgono a tradizioni millenarie? E perché, ancora, alcune regioni meridionali e non altre, dove pure vigono quegli stessi codici, sono infestate dalla criminalità organizzata? E infine: non è vero che in altre regioni italiane - nelle Marche, in Veneto, in Emilia Romagna - il nucleo familiare è alla base di quella civilizzazione industriale fondata sulle piccole imprese che tanti apprezzamenti riscuote da noi e all' estero? E allora perché la famiglia è risorsa al Centro-Nord e ingombro al Sud? - di FRANCESCO ERBANI

 

A proposito di familismo amorale

Eletto Bossi jr

Bossi junior al Pirellone. Renzo Bossi è il "primo eletto della Lega" in provincia di Brescia. Lo ha annunciato il padre Umberto Bossi parlando con i giornalisti nella sede del Carroccio in via Bellerio. Alla domanda se il figlio poteva essere il suo delfino, in passato, Bossi aveva replicato: "Non vedete che è una trota?". Ora il ministro delle Riforme, soddisfatto per il successo elettorale della Lega, ma anche per quello personale del figlio, ha commentato: "Renzo è bravo e mi dà una mano, corre da tutte le parti e viene a tutti i comizi. Forse ha trovato la sua strada".(da La Repubblica 30.3.2010).

Nessuna meraviglia: l'Italia non è la Repubblica dei raccomandati? Come ebbe a dire Filippo Ceccarelli in un articolo apparso su Repubblica il 16.11.2007 lo è (raccomandato) un italiano su due.  (http://www.repubblica.it/2007/11/sezioni/cronaca/lavoro-famiglia/repubblica-raccomandati/repubblica-raccomandati.html)    .

<< E' incredibile - scriveva  il giornalista - come l'Italia sia condannata incessantemente a cambiare per rimanere sempre più uguale a se stessa. Il mercato del lavoro, per dire: dopo la riforma del collocamento, dopo il culto della flessibilità, dopo la nascita delle agenzie interinali, dopo le controversie sulla legge Biagi, ecco che da una ricerca dell'Isfol viene fuori che il 40 per cento della gente ha trovato un posto grazie a parenti, conoscenti o potenti>>

L’occasione è buona per parlare di familismo e precisamente di familismo amorale.

Questo fino a non molto tempo fa era considerato un marchio prettamente meridionale e forse lo è ancora. Era certamente, questa, convinzione radicata in un gruppo palermitano di sinistra che faceva capo al compagno Mario Mineo e che teneva in grande considerazione le “considerazioni” di Henner Hess.

Ma che di stereotipo si trattava e si tratta lo hanno affermato gli storici Umberto Santino e Salvatore Lupo, il sociologo Giovanni Lo Monaco, la sociologa Alessandra Dino e altri.

Umberto Santino in Scienze sociali, mafia e crimine organizzato, tra stereotipi e paradigmi considera il familismo amorale uno degli stereotipi più longevi!. Così scrive Santino <<Mi riferisco in particolare a uno degli stereotipi più longevi, come il "familismo amorale", la tesi dell'antropologo Edward Banfield [1958] che, sulla base di una ricerca molto poco scientifica, ha individuato nell'ethos della famiglia ristretta la chiave di volta del sottosviluppo meridionale. Così tutto il Mezzogiorno, che è stato ed è una realtà ben più complessa, è diventato una grande Montegrano, il paesino lucano scenario della ricerca di Banfield.>> http://www.centroimpastato.it/publ/online/scienze_sociali.php3   

Il sociologo  Giovanni Lo Monaco  ci informa che  in una ricerca realizzata nel 2007 presso la Facoltà di Scienze della Formazione di Palermo a supporto della propria tesi di laurea (relatrice, prof.ssa Alessandra Dino) dal titolo La cultura mafiosa e il sistema valoriale degli adolescenti a Palermo, è stato analizzato il valore “famiglia”. Dai dati ottenuti messi a confronto con le risultanze di altre ricerche, svolte, sia a livello nazionale (rapporto IARD, 2002) che a livello locale (Sciarrone, 2005) é emerso che la famiglia risulta importante per  il 92% dei giovani palermitani, per il 90,3% dei giovani corleonesi e per l’85,3 % del resto dei giovani italiani. (1)

In un interessante articolo apparso su Repubblica  il 10/9/1999  Mezzogiorno di gloria torna il sud riabilitato Francesco Erbani si chiede <<non è vero che in altre regioni italiane - nelle Marche, in Veneto, in Emilia Romagna - il nucleo familiare è alla base di quella civilizzazione industriale fondata sulle piccole imprese che tanti apprezzamenti riscuote da noi e all' estero? E allora perché la famiglia è risorsa al Centro-Nord e ingombro al Sud?>> http://ricerca.repubblica.it/repubblica/archivio/repubblica/1999/09/10/mezzogiorno-di-gloria-torna-il-sud-riabilitato.html

Ma chi contribuisce a demolire lo stereotipo del familismo dei meridionali è soprattutto Salvatore Lupo Lupo, nella sua Storia della mafia Donzelli 2007   .

Racconta Lupo che al processo alla cosca dei fratelli Amoroso nel 1870 avviene uno scambio di battute tra il Presidente e l'imputato Carmelo Mendola dal quale hanno origine visioni distorte riguardo la cultura, o meglio ancora la "subcultura mafiosa" dei siciliani, nonché lo stereotipo del familismo amorale attribuito a detta cultura.

Presidente: Non facevate parte della mafia?                                                                                                                      

 Imputato: Non so cosa significa

Il sociologo Henner Hess, molto amato da un gruppo di sinistra degli anni '70,  pose questo scambio di  battute in epigrafe al suo libro sulla mafia prefato da Leonardo Sciascia per sostenere la tesi della mafia come figlia della cultura siciliana. Hess sostiene che l'imputato non sa cosa sia la mafia  perché  chi sta tutto  "dentro"  una cultura regionale non può - proprio perché ci sta dentro - averne consapevolezza!

Scrive Salvatore Lupo (op.cit.): <<Lo scambio di battute apparirà rivelatore a Hess che lo porrà in epigrafe al suo libro, a Sciascia che più volte lo richiamerà: il mafioso non saprebbe effettivamente cosa la mafia sia, rappresentando la legalità per i siciliani un concetto astratto, portato di uno Stato del tutto estraneo, ed essendo quello che noi chiamiamo mafioso l’unico possibile modello di comportamento in questa società. [....] Hess ha interpretato una fonte tremendamente intenzionale qual è quella giudiziaria come se essa potesse rispecchiare la cultura «dei siciliani», non venendogli in mente che i siciliani possano dire, o non dire, a seconda delle convenienze: convenienze politico-ideologiche (o di altro genere?) per Pitré, disperato tentativo di salvarsi per i protagonisti di un processo destinato a concludersi con tante condanne a morte.>> Lo storico ci fa poi notare come proprio da queste deposizioni degli inquisiti del processo Amoroso siano state erroneamente derivate  teorie socio-antropologiche, ad esempio sul familismo dei meridionali.

Ci ricorda Lupo che l’imputato Caravello, sempre al processo alla cosca dei fratelli Amoroso, alla domanda se i membri della cosca siano suoi amici risponde che lui è amico solo di sua moglie e dei suoi figli. L’imputato Emanuele Amoroso alla domanda se ha odi di “partito” afferma: «Il mio partito sono mia moglie e i miei figli». Sempre nel corso di questo processo quando i fratelli Amoroso vengono accusati dallo zio Giuseppe Amoroso di avere assassinato il di lui figlio, (loro cugino), l’imputato Emanuele Amoroso sfida lo zio a giurare sull’anima del padre loro ascendente comune. Alla perplessità del Presidente su un siffatto giuramento che non è quello previsto dalla legge, l’avvocato difensore, Marinuzzi, insiste: «quello non va per il caso [...] perché il volgo non vi crede». Il volgo crederebbe di più ad un giuramento che richiama in causa il valore sacro della famiglia. Scrive Salvatore Lupo (op. cit.) << Per Hess questa sarebbe la riprova della distanza socio-culturale che separa lo Stato dai siciliani, della «lacuna tra socialità e morale statale» che genera il comportamento mafioso. A me invece pare si tratti di un’abile messa in scena di Marinuzzi, tendente a costruire davanti agli occhi dei giurati (e forse dello stesso teste) l’immagine dei suoi difesi come personaggi ingiustamente accusati, che credono nei medesimi valori familistici della gente comune e che quindi non possono essere i feroci assassini a sangue freddo di un loro stretto congiunto. Ma è chiaro che tale strumentalizzazione della cultura tradizionale può confondere le idee ad un sociologo tedesco solo attraverso una complessa mediazione colta, nella quale proprio Pitrè ha un ruolo centrale e che la cultura avvocatizia isolana contribuisce a diffondere.>> (http://www.spazioamico.it/salvatore_lupo_storia_della_mafia.htm#familismo)

Infine, per concludere, non posso non accennare a quello che il sociologo Giovanni Lo Monaco chiama uno  stereotipo pernicioso e opprimente come quello che identifica la cultura siciliana con quella mafiosa,  che per dirla con le parole di Hess  <<separa lo Stato dai siciliani>>.

 

 

 Note

 (1) Nell'ambito della suddetta ricerca sono state concesse interviste da: D. Gozzo (magistrato) 11/10/06; A. Consiglio (magistrato) 11/10/06; P. Blandano (preside scolastico, già responsabile di Libera-Scuola) 13/10/06; M. V Randazzo (magistrato minorile) 20/10/06; A. Pardo (magistrato minorile) 20/10/06; A. Ingroia (magistrato) 26/10/06; N. Fasullo (direttore della rivista Segno) 26/10/06; S. Lupo (storico) 3 1/10/06; R. Borsellino (deputato all’Assemblea Regionale Siciliana) 03/11/06; R. Scarpinato (magistrato) 03/11/06; F. Di Maria (psicologo) 21/11/06.

(1)

Corrado Augias e Mauro Pesce <<Inchiesta su Gesù>>.- Ed. Mondadori
Enzo Ciconte <<Il ministro e le sue mogli>> - Ed. Rubettino
 
____________________________
 
essendo l'ìstituto della famiglia alla base di diverse, molteplici civiltà, vuol dire che queste hanno tratti "culturali" comuni, tali da renderle quasi identiche.
Con un corollario: il c.d. familismo amorale non è un tratto delle società meno sviluppate economicamente, di quelle a prevalente base agricola rispetto a quelle di capitalismo avanzato, in cui prevale l'atomismo individualistico, bensì un tratto comune a tutte le diverse società, senza differenza alcuna..

omertà