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Umberto Santino Antimafia CIVILE E SOCIALE

Umberto Santino Storia del movimento antimafia   Editori Riuniti, Roma 2000  Introduzione

Questo libro nasce da una duplice esigenza. In questi anni, nel corso della mia attività di studioso e di militante, percorrendo l’Italia ma anche altri paesi, ho avvertito quanto forte e radicata sia la convinzione che l’azione antimafia, a livello istituzionale ma soprattutto a livello sociale, sia qualcosa di recente, se non di recentissimo. In decine di incontri, docenti e alunni, giornalisti, militanti di associazioni antimafia, cittadini in qualche modo impegnati o comunque interessati e sensibili, nei loro interventi dicevano esplicitamente, o davano per sottinteso e scontato: «Finalmente la Sicilia si è svegliata», o all’estero:

«Finalmente l’Italia si è svegliata e ha cominciato a lottare contro la mafia».

Stando a quello che si dice e a quello che «apprendiamo» dai mezzi di informazione, sembrerebbe che prima tutti i siciliani, o quasi. fossero con la mafia, complici o sudditi della mafia, e che da qualche anno, dopo il delitto Dalla Chiesa (3 settembre 1982) per chi ha una memoria un po’ meno corta, o dopo le stragi di Capaci e di via D’Amelio (23 maggio e 19 luglio 1992) in cui sono caduti Falcone e Borsellino, per la stragrande maggioranza, tutti i siciliani, o quasi, siano contro la mafia, in uno sforzo di liberazione da un male atavico che somiglia a una sorta di mutazione antropologica.

In realtà in Sicilia c’è stata, e c’è, la mafia, e c’e stata, e c’è, la lotta contro la mafia. E questa lotta non è cominciata solo da qualche anno ma ha più di un secolo sulle spalle.

Con questo volume ho voluto in primo luogo ricostruire e raccontare la storia delle lotte sociali contro la mafia, a cominciare dai primi passi del movimento contadino, cioè dai Fasci siciliani, e mettere in luce l’ispirazione e le prassi antimafia di centinaia di migliaia di persone impegnate in una lotta durissima per il rinnovamento di una società dominata da forti interessi e presidiata dalla violenza mafiosa.

Se la prima esigenza è quella della memoria storica, la seconda è quella di

riflettere e avviare una prima sistematizzazione di una massa di informazioni riguardanti gli ultimi anni. Quali sono le caratteristiche distintive dell’attuale stagione di lotte rispetto alle lotte precedenti, quali i soggetti, le modalità d’azione, le prospettive Si può parlare di un movimento antimafia alla luce delle riflessioni sui movimenti sociali dagli anni ‘60 in poi? Non pretendo di aver dato risposte definitive, posso dire soltanto che ho cominciato a porre queste domande e ad elaborare le prime risposte.

Nella ricostruzione del movimento degli ultimi decenni l’analisi e il racconto s’intrecciano con la testimonianza, avendo vissuto in prima persona gran parte delle vicende di cui si parla. Al centro del libro c’è la Sicilia, sia per il ruolo che in essa hanno avuto la mafia e l’antimafia, sia anche perchè la mia attività di ricerca e di impegno ha avuto soprattutto per scenario la Sicilia. Per quanto mi è stato possibile ho allargato lo sguardo ad altre realtà, dando voce ai protagonisti delle varie attività.

Lotta di classe e impegno civile

Nella storia delle lotte sociali contro la malia si possono individuare tre fasi, distinguibili per alcune caratteristiche specifiche:

— la prima fase va dai Fasci siciliani (1891- 1894) al secondo dopoguerra (anni ‘40 e 50),

— la seconda abbraccia gli anni ‘60 e ‘70.

— la terza va dagli anni ‘80 a oggi.

Nella prima fase la lotta antimafia si presenta come aspetto peculiare della lotta di classe e per la democrazia in Sicilia, e in particolare nella Sicilia occidentale, area in cui storicamente si è formata e sviluppata la mafia.

Il soggetto protagonista è il movimento politico-sindacale nelle fasi iniziali: una sorta di «stato nascente» di sindacati e partiti. La nostra storia comincia con i Fasci siciliani e continua con le lotte contadine fino agli annl ‘50. Queste lotte si scontrarono duramente con gli agrari e con i grandi affittuari (gabellati) legati alla mafia, che ricorsero agli assassinii e alle stragi per repriimere qualsiasi tentativo di mettere in forse il loro dominio.

Nella seconda fase la lotta contro la mafia è condotta dalle forze politiche di opposizione e da piccole minoranze, raccolte in alcuni dei gruppi di Nuova sinistra che si formano dopo il ‘68.

Dagli anni ‘80, in particolare dopo il delitto Dalla Chiesa, si svolgono  iniziative diverse (dibattiti, convegni, petizioni, raccolte di firme, cortei, fiaccolate, spettacoli) , si formano centri, associazioni, comitati, gruppi formali e informali, coordinamenti, cartelli ecc. ed entrano in gioco vari soggetti: studenti, insegnanti, intellettuali, commercianti, religiosi, uomini delle istituzioni, cittadini comuni. Il movimento antimafia assume dimensioni di massa, almeno in alcune manifestazioni, e si presenta come una forma di impegno civile che si diffonde in varie regioni d’Italia. Non è più il conflitto di classe la molla che fa scattare la mobilitazione, ma l’indignazione per la tracotanza mafiosa, che si esprime con delitti che colpiscono gli uomini più rappresentativi delle istituzioni che si oppongono all’espansione del fenomeno mafioso, in nome dello Stato, che però li condanna all’isolamento e li espone alla ritorsione violenta. Con l’indignazione si fa strada la consapevolezza che il

fenomeno mafioso non è più limitato a una piccola area del paese e costituisce un attentato continuato alla vita democratica.

La prima fase è la più esplorata, anche se non è stata studiata finora sotto

il peculiare punto di vista dello scontro con il fenomeno mafioso. Per essere la più lontana nel tempo, essa è stata e continua ad essere oggetto della ricerca storica ma è totalmente, o quasi, ignorata dalle giovani generazioni.

I problemi di fondo da mettere in luce riguardano gli obiettivi, le forme organizzative, la composizione di classe del movimento contadino e più in generale della società siciliana, convinti come siamo che la mafia è un fenomeno che va ricostruito nella sua base sociale e nel suo ruolo all’interno del contesto sociale, da cui va distinta per le sue specificità ma non separata, come se si trattasse di qualcosa di estraneo, marginale o patologico.

Dai Fasci siciliani agli anni ‘40 e ‘50, in contesti mutati, si sono riproposti

sostanzialmente gli stessi problemi. sia a livello di dibattito teorico che di prassi politico-sindacale. Data l’etereogeneità della composizione del mondo contadino siciliano, bisognava coinvolgere tutte le componenti (comprese  quelle piccolo-borghesi, cioè contadini medi, piccoli proprietari) o solo i proletari (cioè i braccianti, la forza-lavoro salariata, e i contadini poveri) e obiettivo della lotta doveva essere la socializzazione della terra o la sua distribuzione ai contadini?

La questione della composizione di classe si pose fin dai primi passi dei movimento contadino a livello internazionale, con analisi e decisioni operative diverse (basti pensare al programma francese, che comprendeva anche le componenti piccolo borghesi, e ai congressi di Zurigo dell’agosto 1893 e di Reggio Emilia del settembre successivo, in cui si tracciarono confini precisi per quanto riguarda i soggetti, esclusivamente i proletari delle campagne, e gli obiettivi, con al centro la collettivizzazione) e si riaffacciò puntualmente nelle tappe successive fino agli anni ’50.  Essa presenta risvolti notevoli riguardo alla mafia, anch’essa con una base sociale complessa: gli affiliati alle associazioni mafiose provenivano da  varie classi, il blocco sociale con cui interagivano le organizzazioni mafiose aveva composizione interclassista, coincidente in parte con quella stessa del movimento contadino, ma al suo interno la funzione dominante era svolta, e con gli aggiornamenti richiesti dai mutamenti del quadro continua ad essere svolta anche oggi, da quella che ho definito «borghesia mafiosa», cioè dai soggetti illegali-legali più ricchi e potenti. Si ripercuotono sul terreno della lotta alla mafia i grandi problemi e le non meno grandi divisioni che hanno attraversato tutta la storia del movimento operaio, le sue scelte strategiche e le non meno importanti e laceranti

scelte tattiche: riforme o rivoluzione, intransigenza o elasticità ecc. ecc.

La seconda fase è pressoché sconosciuta, se si toglie la cerchia ristretta dei militanti di quella stagione politica, spesso avviati su altre strade e poco interessati a conservarne la memoria. La peculiarità di questa fase, che può essere definita un periodo di transizione, per i mutamenti in atto nel quadro sociale e nella mafia, è data dal recupero di una dimensione classista, operato da minoranze che dimostrano una notevole lucidità di analisi sugli sviluppi del fenomeno mafioso e vivono esperienze significative, tra cui quella conclusasi tragicamente di Giuseppe Impastato. 4. -

Sulla fase più recente la riflessione è appena avviata. Come abbiamo già accennato, abbondano le mitizzazioni e le proiezioni spettacolari: la mobilitazione antimafia viene presentata come una novità assoluta e manifestazioni certamente significative ma spesso episodiche, dettate da un’indignazione sacrosanta e da un’emozione condivisibile ma troppe volte destinate a spegnersi in breve tempo, vengono considerate come indici di processi in stato avanzato e irreversibili. In gran parte le iniziative degli ultimi anni si sono configurate come risposta ai grandi delitti e alle stragi che hanno colpito personaggi-simbolo dell’immaginario collettivo, come i1 generale-prefetto Dalla Chiesa e i magistrati Falcone e Borsellino, e si sono ben presto attenuate ed esaurite, lasciando solo deboli tracce per il futuro.

Secondo le idee correnti, anche se non esplicitate in forma compiuta, l’attuale  movimento antimafia sarebbe una manifestazione della società civile, un movimento etico-sociale, una forma di cittadinanza militanza sociale. Il denominatore comune delle riflessioni su tali temi è dato dalla presa d’atto che nella società contemporanea alla crisi dei soggetti storici della mobilitazione sociale (partiti e sindacati) e delle prospettive  di mutamenti radicali si accompagna il proliferare di soggetti e forme d’azione che non sono inquadrabili nello schema dell’antagonismo di classe.

Se guardiamo più da vicino alle analisi dei movimenti sociali, sviluppate in concomitanza dei movimenti degli anni ‘60 negli Stati Uniti e in Europa, le elaborazioni teoriche pongono l’accento sul conflitto sociale e la rottura antisistemica oppure tentano di far convivere l’anima dell’integrazione e quella della conflittualità.

L’attuale movimento antimafia è interclassista o aclassista, raccogliendo cittadini provenienti da varie classi senza porsi il problema della loro collocazione nel contesto sociale, mette al centro esclusivamente o prevalentemente dei valori (la giustizia. la legalità) e nei confronti del sistema ha un atteggiamento bivalente. Non è contestazione globale, antisistemica, ma mirata, volta ad espellere dal seno delle istituzioni i «poteri criminali», mettendo fine a quella congerie di complicità che sono alla base della forza e persistenza del fenomeno mafioso e di altri fenomeni ad esso assimilabili.

 

Una storia contro gli stereotipi

 

Raccontare la storia delle lotte contro la mafia dall’ultimo decennio del XIX secolo ai nostri giorni ci sembra il modo migliore per dare una risposta, più convincente di mille polemiche, a tutte quelle visioni della Sicilia e dell’Italia meridionale legate a schemi teorici tanto gratuiti, in tutto o in parte, quanto fortunati. Pensiamo in particolare al «familismo amorale» (Banfield), alla concezione della mafia come subcultura condivisa dalla popolazione siciliana (Hess) 10, alla tesi secondo cui il Mezzogiorno sarebbe caratterizzato dall’incivisme, cioè dalla mancanza di strutture della società civile (Putnam). 11

Non si vuole negare l’importanza che hanno in Sicilia e nel Mezzogiorno — come del resto in ogni parte del mondo e in tutti gli strati della popolazione, a cominciare dalle dinastie aristocratiche e da quelle finanziario-imprenditoriali — la famiglia e le reti parentali, ma non si possono costruire paradigmi  interpretativi convincenti ignorando gran parte della storia siciliana e meridionale, non spendendo neppure una parola per la fitta rete organizzativa dispiegata sul territorio ad opera dei Fasci, per le strutture organizzative — sindacali, partitiche, cooperativistiche — che formarono l’ossatura del movimento contadino nei due dopoguerra. E il «familismo» non sempre significa chiusura nel privato e squallido egoismo, tanto che si è giustamente parlato di un «familismo morale» e come vedremo anche nel fronte antimafia un ruolo importante hanno avuto ed hanno i familiari di vittime 12. Come pure sostenere che tutta, o quasi, la popolazione della Sicilia occidentale era irretita nella subcultura mafiosa e considerava la mafia come uno scudo protettivo vuol dire amputare con un taglio netto tutta la storia delle lotte contro la ma- ha, una vera e propria guerra in cui grandi masse armate della loro volontà di riscatto e forti delle organizzazioni e dei programmi che erano riuscite a darsi si scontravano con la più feroce delle violenze.

Negli ultimi anni a un’immagine dell’Italia meridionale e insulare piagata dall’incivisme si è contrapposta un’immagine forse un po’ troppo rosea ed ottimistica. Recenti ricerche hanno registrato un fiorire di associazioni 13 e tra le metropoli italiane Palermo avrebbe la più alta  concentrazione di associazioni di volontariato.

Il dato quantitativo di per sé non basta a documentare una realtà. Bisogna vedere cosa c’è di effettivo e di duraturo: molte associazioni sono solo sulla carta, o sono precarie, o sono travagliate da troppi problemi. a cominciare da quelli finanziari, per potere svolgere adeguatamente la loro attività. Per quanto riguarda più specificamente le associazioni antimafia, da recenti rilevazioni risulta che esse sono diffuse in tutta Italia ma sono concentrate nell’Italia meridionale 15. Anche in questo caso la prudenza è d’obbligo. Associazioni, centri e comitati antimafia spesso nascono e muoiono in breve tempo, o limitano la loro attività alla partecipazione a qualche manifestazione o esistono solo di nome.

 

Movimento antimafia e istituzioni

 

Una domanda che spesso mi sono sentito fare e che probabilmente i lettori avranno già pensato di tare: come mai tutte queste lotte contro la mafia

non sono riuscite finora a debellarla o almeno a ridimensionarla?

Ai Fasci siciliani hanno partecipato due o trecentomila persone, il movimento contadino del secondo dopoguerra ha visto la mobilitazione di più di mezzo milione di persone ma queste grandi masse si sono scontrate non solo con i mafiosi ma anche con le istituzioni. Sui manifestanti dei Fasci sparavano i soldati, per ordine del capo del governo, il siciliano Francesco Crispi. e i campieri mafiosi e dal gennaio del 1893 al gennaio del 1894 ci furono 108 morti. I Fasci furono sciolti e i dirigenti furono processati e condannati. Si distrusse cosi un’esperienza di autorganizzazione capillare che avrebbe potuto mettere radici e circa un milione di siciliani abbandonò l’isola in cerca di fortuna in altri lidi.

Decine e decine di militanti sono stati uccisi nelle successive ondate del movimento contadino e quasi tutti i delitti sono rimasti impuniti, nonostante le denunce, spesso con nomi e cognomi, gridate nelle piazze dai compagni dei caduti. Ancora una volta i protagonisti delle lotte scelgono la strada dell’emigrazione (dal 1951 al 1971 lasciò la Sicilia più di un milione di persone. Queste sconfitte e questi esodi, ben più consistenti di quelli biblici,  hanno messo in ginocchio e dissanguato la Sicilia migliore e lasciato libero campo agli agrari e ai mafiosi, che tenevano  saldamente in mano le redini del potere. E per avere un’idea di come la repressione violenta si combini con il progetto politico, basta riflettere sulle modalità e sui contenuti della riforma agraria siciliana. Le terre, spesso le peggiori e sempre troppo esigue, venivano assegnate su sorteggio individuale: un invito esplicito a smantellare le cooperative che si era riusciti a costituire faticosamente sulla spinta delle assegnazioni temporanee delle terre incolte o malcoltivate volute dal ministro comunista  Fausto Gullo ai tempi dei governi di coalizione antifascista, definitivamente archiviati qualche giorno dopo la strage di Portella della Ginestra. Come a significare che il messaggio degli agrari e dei mafiosi era stato ricevuto, capito e accolto. E per giunta si è scritto che i siciliani sono inadatti alla coperazione!

Tutto ciò ha un preciso significato: lo Stato e le istituzioni nel loro complesso (dal governo centrale agli enti locali, dalla magistratura e dalle forze dell’ordine alla burocrazia) hanno avuto un ruolo decisivo nella sconfitta e nella dissoluzione dei movimenti che hanno lottato contro la mafia e per un assetto politico diverso da quello che ha prodotto la mafia e ne ha consentito lo sviluppo, e all’interno del quadro istituzionale si sono incrociate e rafforzate le ragioni per cui la mafia per un lungo periodo della sua storia si è dimostrata invincibile. Pertanto, più che di un generico ruolo filomafioso dei rappresentanti delle istituzioni, si può parlare di forme di complicità con i mafiosi, non generalizzate ma ampiamente diffuse, derivanti dall’appartenenza dei vari soggetti agli stessi strati sociali o dall’impegno comune in difesa degli stessi interessi, per mantenere inalterati i rapporti di dominio e di subalternità.

Dalla fine degli anni ‘70 si registra una novità nel quadro istituzionale: politici di governo, magistrati, uomini delle forze dell’ordine vivono il loro vivono il loro ruolo e la loro professione come un impegno contro la mafia, e ciò si spiega con lo straripare del fenomeno mafioso, in seguito all’incremento dell’accumulazione illegale legata ai traffici internazionali (quella che ho chiamato «mafia finanziaria» 16) e con la rottura delle compatibilità, che porta a una decisa presa di coscienza di singoli e di settori delle istituzioni. Il ruolo di queste rimane in gran parte invariato, ma ora al loro interno si producono e si sedimentano contraddizioni, tende ad allargarsi i1 numero dei «servitori dello

Stato» impegnati, anche a rischio della vita, nell’attività di contrasto a una

mafia sempre più ricca e pretenziosa. Sappiamo quanti di loro sono caduti

per mano mafiosa.

Il fatto nuovo degli ultimi anni è dato dall’incontro tra un movimento antimafia con caratteristiche diverse dal movimento contadino e settori istituzionali, un incontro che certamente è un punto di forza di una nuova strategia antimafia ma che troppo spesso rimane episodico e sporadico o si riduce a una sorta di collateralismo, proficuo nei periodi di attivazione successivi ai delitti eclatanti e alle stragi, vissuti come «emergenzaa»; meramente  difensivo se non ritualmente «solidale» e predicatorio, nei periodi, ben più ampi, di «ritorno alla normalità» in mancanza di grandi delitti.

Cosi abbiamo un’antimafia istituzionale che consegue risultati concreti. come gli arresti, i processi e le condanne, ma rimane in gran parte simbolica e comunque «emergenziale», e un’antimafia civile anch‘essa legata all’emergenza, con manifestazioni di massa dopo lo stragi e i delitti con vittime prestigiose e il lavoro quotidiano affidato a pochi militanti, generosamente impegnati più in un ‘ottica di testimonianza e di pratiche atomizzate ed episodiche che in quella di un progetto che coinvolga strati consistenti della popolazione.

Come vedremo, non mancano i tentativi di andare oltre l’emozione e verso il progetto. di coinvolgere strati popolari in un ‘antimafia sociale che si ponga i problemi del nostro tempo, a cominciare dalla disoccupazione e dalla crisi dell’economia legale, che inevitabilemente portano verso l’accumulazione illegale e la riproduzione e la dilatazione del circuito mafioso. Questa ci sembra la strada su cui incamminarci per dare un futuro al movimento antimafia, ma non va ignorato che esso non può non risentire del clima del contesto. Oggi, e per chissà quanto tempo ancora, è impossibile definire i contorni di una prospettiva che aspiri a porsi come nuovo orizzonte programmatico e la precarietà e la parzialità sono limiti ineliminabili, non solo per la mobilitazione antimafia.

Al centro di questo libro sono le lotte sociali e civili contro la mafia  ma ho ritenuto di dover prestare una certa attenzione al contesto, registrando il comportamento delle istituzioni, l’attività legislativa e giudiziaria, e al quadro culturale, ripercorrendo la produzione di studiosi e scrittori più o meno noti e dando voce direttamente ai protagonisti, attraverso interviste e storie di vita raccolte in anni di ricerca sui terreni delle lotte.

Ha scritto il sociologo Alain Touraine: «Sarebbe agire da ideologo e nel modo più pericoloso, studiare i movimenti sociali come cose». Il pericolo è ancora più grave se parliamo del movimento antimafia e raccontiamo la sua lunga storia. In questo racconto non incontriamo idee astratte ma bisogni concreti, ricostruiamo vicende umane concluse nel sangue, conosciamo da vicino protagonisti spesso sconosciuti e dimenticati che riassumono e incarnano le aspirazioni e le lotte di un intero popolo o della parte migliore di una società. Dirigenti dei Fasci come Nicolò Barbato. Lorenzo Panepinto, Bernardino Verro, protagonisti delle lotte contadine dccli anni ‘20, ‘40 e ‘50, da Nicolò Alongi ad Accursio Miraglia, dai caduti della strage di Portella della Ginestra a Epifanio Li Puma, Placido Rizzotto. Calogero Cangialosi, Salvatore Carnevale, combattenti di una resistenza parallela a quella antifascista e poi gli attori di vicende più recenti, da Giuseppe Impastato a Pio La Torre, a Mauro Rostagno; le donne in prima fila nelle lotte e nelle denunce, come le contadine dei Fasci e le madri di Carnevale e di Impastato; preti come don Pino Puglisi e don Giuseppe Diana. E accanto a loro giornalisti e scrittori come Mario Francese, Giuseppe Fava e Giancarlo Siani: imprenditori come Libero Grassi e rappresentanti delle istituzioni che hanno saputo fare scelte coraggiose, pagando di persona, da Emanuele Notarbartolo a uomini delle forze dell’ordine come Boris Giuliano, Beppe Montana, Ninni Cassarà e Roberto Antiochia, magistrati come Cesare Terrana, Gaetano Costa, Giangiacomo Ciaccio Montalto, Rocco Chinnici, Rosario Livatino, Giovanni Falcone, Francesca Morvillo e Paolo Borsellino (per limitarci solo ad alcuni nomi, senza nessuna intenzione di stilare graduatorie e di far torto a tutti gli altri caduti nella lotta contro la mafia, figurino o meno nelle pagine del libro). Non sono eroi solitari ma protagonisti di una storia che si è sviluppata dentro una sostanziale continuità, pur con grandi mutamenti, che ha conosciuto sconfitte e pause d’arresto ma ha segnato anche innegabili progressi. Raccontare questa storia vuol dire far rivivere una memoria che fa parte a pieno titolo della storia migliore del nostro paese e ritrovare le radici di un’identità: risorse indispensabili se vogliamo fare la nostra parte, con la consapevolezza che l’affrancamento dal prepotere mafioso è un passaggio obbligato sulla strada della liberta e della democrazia.

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